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Tesori nascosti
a cura di Alberto Rossignoli
Quanti sono, nel mondo, i tesori nascosti?
Un’anagrafe completa non è possibile, ma certamente fra quelli reali e quelli immaginari la cifra supera il migliaio.
Vediamone una carrellata.
Il mito delle ricchezze dei Templari è datato 13 ottobre 1307, giorno in cui Filippo il Bello, re di Francia, fece imprigionare centinaia di Cavalieri del Tempio, accusandoli di magia nera e nefandi delitti per impadronirsi dei loro beni. Ma il tesoro templare non arrivò mai nelle mani della Corona. Il Gran Maestro dei Templari Jacques de Molay, prima di essere messo al rogo, pare avesse trovato il tempo e il modo di occultarlo. Da allora, la caccia è aperta: in Francia e Scozia, ma anche in tutta Europa e persino in America, malgrado l’anacronismo. E proprio al tesoro dei Templari è collegato il mistero di Rennes-le-Chateau, riguardo al quale non ritengo opportuno dilungarci, in questa sede: troppo ci sarebbe da scrivere a riguardo, stante la sua complessità, ed è dunque meglio dedicare uno scritto apposito a questo mistero (non foss’altro per evitare qualsiasi banalizzazione conseguente ad una impropria sintesi) , del quale ancora non si è messa la parola “fine”.
Il tesoro degli Incas scomparve invece nel XVI secolo al di là dell’Atlantico. Prigioniero del conquistador Francisco Pizarro, l’imperatore Atahualpa aveva tentato di barattare la propria vita con il contenuto di una cella piena d’oro, le cui coordinate, però, si era rifiutato di comunicare. Pizarro non tenne fede alla sua parola, ma quando gli spagnoli misero mano al tesoro, trovarono cinque tonnellate d’oro invece delle 40 previste. Errata valutazione, beffa postuma oppure occultamento del tesoro sulle Ande e nella foresta amazzonica? Gli spagnoli erano convinti che quell’oro fosse esistito davvero e ancora oggi, malgrado gli insuccessi, la speranza di ritrovare il tesoro degli Incas resta viva.
Sono invece documentate dalla Casa de Contratacion di Siviglia le oltre mille tonnellate d’oro e 33 mila d’argento che l’amministrazione spagnola aveva ricavato nei primi due secoli di colonizzazione dell’America. Queste ricchezze erano finite nelle stive dei galeoni delle “Plata Flotas”, le cosiddette Flotte d’Argento che ogni anno salpavano verso la Spagna.
Ma solo poco più della metà arrivò a destinazione; il resto fu depredato dai pirati, o affondò nei numerosi naufragi. Ma dove sono andate a finire tutte quelle ricchezze di cui si erano impadroniti pirati come Morgan, Drake, Kidd, L’Olonese o Barbanera? In parte in baccanali o nelle casse dei re d’Inghilterra e di Francia; in parte sepolti in qualche isola deserta, per sottrarli alla rapacità dei compagni o in attesa di tempi più tranquilli.
I casi in cui audaci cercatori sono riusciti a mettere le mani su qualcuno dei loro malloppi sono pochi. Sulla sperduta isola del Cocco, nell’Oceano Pacifico, dovrebbero essere nascosti ben tre tesori: quello di Edward Davis, terrore delle coste dal Messico all’Ecuador, quello di Edward Bennett, altrimenti noto come “Benito dalla spada insanguinata”, e quello evacuato dalla città di Lima durante le guerre per l’indipendenza del Sud America.
Scatenata da una serie di documenti sconclusionati, dubbie rivelazioni, confessioni in punto di morte e oscuri riferimenti, la caccia ai tesori dell’isola del Cocco dura da 150 anni circa. Ci hanno provato un ammiraglio inglese, costretto poi alle dimissioni per aver impiegato una nave e i marinai di Sua Maestà, un avventuriero tedesco rimasto sull’isola per 19 anni e un’attrice inglese di modesta fama accompagnata da un colonnello reduce dal Vietnam. Complessivamente una ventina di spedizioni; con miseri risultati e molti miliardi spesi per le ricerche.
A Oak Island, l’isola della Quercia di fronte alla Nuova Scozia (Canada), i cacciatori di tesori si sono accaniti per oltre due secoli attorno al “Money pit”, il Pozzo del denaro, scoperto nel 1795 e ritenuto nascondiglio del bottino di Capitan Kidd: due milioni di sterline-oro, secondo un’iscrizione ritrovata a 24 metri di profondità. Il fallimento di tutti i tentativi si deve al fatto che il pozzo è collegato alle acque della baia sottostante attraverso una serie di gallerie, sbarramenti e sifoni alquanto difficili da identificare, che riempiono d’acqua il condotto a ogni alta marea. Inoltre i tanti tentativi fatti per scavare pozzi paralleli rendono difficile localizzare l’originario Money pit. L’ultimo pozzo, scavato nel 1987 dal consorzio Triton Alliance, è costato 10 milioni di dollari. Risultato? Le attrezzature sono state sommerse dall’acqua a 54 metri di profondità.
Secondo le stime, un migliaio di grossi relitti di navi giacerebbero sui fondali. La maggior parte, circa 700, si concentrerebbe nell’area tra il Golfo del Messico, il Mar dei Carabi e le Bermuda. Sarebbero il frutto dei naufragi che hanno decimato la Plata Flotas dal XVI al XVIII secolo: circa 200 di quei relitti ospiterebbero favolose ricchezze.
Altrettanto invitanti sono le navi affondate in altri mari o in altre epoche: dall’ammiraglia portoghese Flor de la Mar, colata a picco nel 1512 fra la Malesia e l’isola di Sumatra con un carico di pietre preziose, monete e tigri d’oro massiccio, ai 17 galeoni di una delle ultime Flotte d’Argento affondati nel 1702 nella baia di Vigo (Spagna) sotto le cannonate inglesi. La fregata Grosvenor è adagiata dal 1782 sui banchi di sabbia al largo del Sud Africa insieme con oro, argento e diamanti grezzi destinati alla Compagnia delle Indie, mentre il tre alberi americano General Grant giace dal 1865 nelle acque della Nuova Zelanda con due tonnellate e mezzo di lingotti d’oro a bordo.
Anche i fondali italiani ospitano relitti di navi fenicie, greche, romane, medievali e rinascimentali. Recenti ricerche negli archivi spagnoli hanno ipotizzato che i mari italiani ospitino anche alcune navi del XV e XVII secolo con almeno 2 mila tonnellate di metalli preziosi nelle loro stive.
La caccia ai tesori sommersi è cominciata nel XVII secolo grazie all’intraprendenza di William Phips, un carpentiere del Maine che nel 1682 aveva ottenuto da Carlo II, re d’Inghilterra, i mezzi per tentare il recupero del carico del galeone Nuestra Senora de la Pura y Limpia Concepcion, affondato nel 1643 a nord dell’isola di Santo Domingo. Dopo cinque anni Phips riuscì a mettere le mani sulle 26 tonnellate di oro e argento in monete e lingotti che gli valsero il titolo di baronetto e la nomina a governatore del Massachusetts. Da quel giorno la caccia non è più cessata, grazie ad attrezzature sempre più sofisticate. Fino ad arrivare al sommergibile Nr-1 (Nuclear Research 1), costruito nel 1969 dalla U.S. Navy per missioni di spionaggio e ora offerto a Robert Ballard, lo scopritore del relitto del Titanic, per esplorazioni archeologiche nel Mediterraneo: si immerge fino a 900 m di profondità ed è dotato di 27 fari, monitor telescopici e braccia prensili robotizzate.
L’ultimo colpo grosso dei cacciatori di tesori risale al 1985, quando l’ex allevatore di polli dell’Indiana Mel Fischer ha riportato a galla il carico del galeone Nuestra Senora de Atocha, affondato al largo della Florida nel 1622: 160 lingotti d’oro, 600 d’argento e 25 mila dobloni per un valore di circa 400 milioni di dollari. Una fortuna che ha richiesto anni di ricerche, immersioni, investimenti, senza contare tutte le spese legali per il contenzioso con lo Stato della Florida.
Secondo il diritto internazionale, infatti, i relitti sono considerati “res nullius”, beni senza proprietari, se si trovano oltre le 12 miglia, cioè fuori dalle acque territoriali.
Ma c’è chi ha avanzato l’idea che gli Stati estendano la propria sovranità su tutto quanto giace sulle piattaforme continentali prospicienti le rispettive coste sino alle fosse oceaniche, salvo riconoscere agli scopritori il 25-30 % sul valore dei recuperi.
Ancora più confusa la situazione riguardante lo status legale dei tesori più recenti, ossia quelli della Seconda guerra mondiale. Dalle molte tonnellate d’oro abbandonate nelle Filippine dal generale giapponese Yamashita Tomoyuki all’oro dell’Afrikakorps, spedito in Italia da Rommel poco prima della resa in Tunisia, e prudentemente affondato, in sei grosse casse sigillate, nelle acque della Corsica dopo l’8 settembre 1943.
Ma c’è anche il tesoro del Peloponneso (50 casse d’oro e gioielli, strappate alla comunità ebraica di Salonicco), che il responsabile dell’amministrazione nazista Max Merten avrebbe fatto affondare nello Ionio, riservandosi di recuperarlo in momenti migliori.
La caccia, dunque, continua…
Fonti:
Focus Extra; Sergio De Santis, Tesori perduti
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