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EPOCA DELLA REPUBBLICA (509 a.C.-44 a.C.)
La Repubblica Romana appena fondata, pur rappresentando un importante passo avanti in campo sociale, non teneva ancora in considerazione i diritti della plebe, tenuta fuori da ogni partecipazione attiva alla vita politica della città. Solo in seguito, anche la plebe raggiungerà i suoi successi, ma per il momento la Repubblica Romana rimaneva ad esclusivo controllo dei patrizi. Questi erano una categoria di cittadini privilegiata, che appartenevano ad una gens, ovvero ad un gruppo d'individui, legati tra loro da rapporti di parentela, discendenti tutti da un antenato comune.
All'interno di ogni gens c'erano poi le varie familiae, riconoscibili come ai giorni nostri da un cognonem. Gli antichi patrizi, di conseguenza, oltre ad avere un nome e un cognome (che indicava l'appartenenza ad una certa familiae), portavano anche la denominazione della gens a cui appartenevano (ad esempio Caio Giulio Cesare).
I patrizi erano inoltre i soli a poter interpretare il volere delle divinità, i cosiddetti auspicia. Era questa una prerogativa importante in un'epoca in cui per ogni decisione s'invocava il parere degli dei (entrare in guerra, costruire un tempio ecc.).
Proprio per queste caratteristiche i patrizi erano differenziati dalla grande maggioranza del popolo, i plebei (che in latino significa appunto la moltitudine), i quali non possedevano né gens né auspicia.
La nascente Repubblica Romana era formata da:
CONSOLI - Rappresentava la carica politica più importante. I consoli erano due, e rappresentavano due supremi magistrati a cui era affidato il potere esecutivo. La cosa ancor più importante è che disponevano anche del comando militare, attraverso uno strumento che era loro consegnato, chiamato Imperium. Potevano gestire secondo loro valutazioni la leva dell'esercito, nominare gli ufficiali, comandare le forze militari, punire, anche con la morte e senza possibile appello, i soldati indisciplinati, introdurre nuovi tributi per finanziare campagne militari.
Il loro immenso potere era controllato attraverso alcune norme costituzionali a cui dovevano attenersi: in ogni decisione dovevano essere entrambi favorevoli, non era possibile far entrare l'esercito in città (esisteva un limite invalicabile chiamato pomerium), ogni cittadino condannato da un console poteva fare appello al popolo e solo a questo spettava la sentenza finale, rimanevano in carica un solo anno e alla fine del loro mandato dovevano rendere conto della loro legislatura al senato.
PRETORI - Erano magistrati incaricati di risolvere le varie questioni giuridiche che sorgevano tra i cittadini, fungendo da giudici. La carica durava un anno.
QUESTORI - Erano magistrati incaricati di amministrare l'erario pubblico. La carica durava un anno.
EDILI CURULI - Erano magistrati a cui veniva affidato il controllo delle strade e di ogni luogo ed edificio pubblico. Dovevano anche sorvegliare le cerimonie religiose. La carica durava un anno.
CENSORI - Era un magistrato con ampi poteri. Era incaricato del censimento della popolazione, che riportava in registri attraverso i quali era possibile dividere i cittadini per censo, assegnandoli ad una certa classe, e ad un certo pagamento di tributi, individuando anche coloro destinati al servizio di leva. Gli aggiornamenti erano fatti ogni cinque anni.
Aggiudicava gli appalti, vigilava sulla moralità degli individui sia patrizi che plebei, rifacendosi sempre all'antica morale dei padri latini; in seguito a comportamenti disdicevoli, poteva scegliere di cacciare i senatori dall'assemblea. La sua carica durava diciotto mesi.
S.P.Q.R. (Senatus Populus Que Romanus) - Era il Senato del popolo di Roma con voce in capitolo in ogni importante decisione da prendere che riguardasse lo Stato. Assegnava le varie zone ai magistrati in carica, decideva come impiegare la spesa pubblica, vigilava sulla religione decidendo le dediche per le varie divinità dei nuovi templi e accettando o rifiutando l'inserimento di nuovi culti e divinità, prendeva decisioni sulle varie operazioni militari, pur non potendo scegliere se entrare in guerra (potere questo affidato all'assemblea popolare). La carica era vitalizia, ma si poteva diventare senatori solo dopo aver ricoperto almeno una magistratura.
COMIZI CENTURIATI - Era un'assemblea popolare attraverso la quale venivano eletti i consoli, i pretori, i censori, giudicava in appello i cittadini condannati dai magistrati, sceglieva se entrare in guerra, votava le leggi proposte dai magistrati superiori.
La popolazione era divisa in cinque classi rispetto al censo, e ad ogni classe veniva assegnato un certo numero di centurie. Le centurie totali erano 193, e solo alla prima classe, quella più ricca, ne venivano assegnate ben 98, con una conseguente maggioranza assoluta su ogni votazione nei Comizi Centuriati, e nonostante la prima classe era quella con il minor numero di iscritti.
I nullatenenti, erano chiamati proletari (coloro che possedevano solo la prole), e non erano tenuti, a differenza di tutte le altre classi, al servizio militare.
COMIZI TRIBUTI - Era un'assemblea popolare con compiti inferiori a quelli dei Comizi Centuriati. Eleggeva i magistrati minori, giudicava in appello solo ai casi minori, votava le leggi proposte dai magistrati senza avere diritto di iniziativa.
La formazione dei Comizi Tributi avveniva in base alla posizione geografica delle tribù, in cui era suddivisa la popolazione: 4 tribù urbane a cui appartenevano gli abitanti della città (Suburana, Palatina, Esquilina, Collina) e 16 tribù rustiche, a cui appartenevano coloro che abitavano fuori città e che per lo più erano proprietari terrieri. Ogni tribù aveva un voto, indipendentemente dal numero d'iscritti che possedeva.
In casi di particolare gravità, come ad esempio lo scoppio di una guerra, i consoli potevano eleggere un dittatore, che assumeva i pieni poteri sia civili che militari, per gestire tempestivamente la situazione. Si tornava in pratica ad un ordinamento di tipo monarchico, pur se solo temporaneamente, in quanto il dittatore durava in carica solo sei mesi. Raramente, comunque, i consoli ricorsero ad un tale provvedimento, poiché i poteri affidati al dittatore erano totali, e questi non doveva rendere conto a nessuno delle proprie scelte.
Per quanto concerne il panorama geopolitico, Roma continuò ad avere scontri con la Lega Latina di cui voleva assumere il controllo. Le città e i villaggi del Lazio erano infatti riuniti in leghe, vale a dire in alleanze, che racchiudevano comunità con un comune credo religioso, che frequentavano gli stessi santuari e che avevano le medesime leggende e riti. La più importante e potente lega del Lazio era proprio la Lega Latina formata tra gli altri da Tivoli, Tuscolo, Lanuvio e Pomezia, con cui Roma giunse alla battaglia finale per la resa dei conti, nel 499 a.C. nei pressi del lago Regillo, vicino Frascati. Roma riesce a riportare un'importante vittoria diventando la forza principale della regione.
Nuove minacce iniziarono però a farsi pressanti: una serie di popolazioni Appenniniche si misero alla ricerca di nuove localizzazioni, terreni più fertili e un clima migliore, dove insediarsi definitivamente. Iniziarono così a scendere dalle montagne cercando di occupare i territori delle città del Lazio. Tra loro v'erano i Sabini, i più pericolosi, che arrivarono ad insediarsi sulla riva sinistra del Tevere, lungo la via Salaria, gli Equi che da Carsoli si spinsero fino a Tivoli e Preneste dove si insediarono e infine i Volsci che provenivano dalla zona del fiume Liri e che a sud di Roma fondarono Anzio, Terracina e Velletri.
Per controbattere queste crescenti minacce, Roma, nel 493 a.C., si alleò proprio con la Lega Latina, che solo pochi anni prima aveva battuto in guerra, e firmò con essa il Foedus Cassianum, vale a dire un trattato (chiamato così dal nome del console firmatario Spurio Cassio) che sanciva un'alleanza tra loro allo scopo di unire le forze.
Le battaglie contro gli Appenninici si dimostrarono comunque lunghe e faticose, anche perché all'interno della Lega Latina solo Roma dimostrò di poter occupare un ruolo importante e di rilievo, e l'alleanza si palesò poco proficua. Così lo scontro con i popoli Appenninici durò a lungo e Equi e Volsci furono con il tempo assoggettati attraverso un graduale processo di Romanizzazione: sul campo di battaglia i Volsci furono sconfitti e saccheggiati dall'esercito guidato da Gneo Marzio Cornelio (nel 493 a.C.). Si racconta che fu una vittoria talmente grande e prestigiosa, che Gneo Marzio fu soprannominato "Coriolano", dal nome della città (Corioli) che era riuscito a conquistare. Poco tempo dopo questa grande impresa, però, Coriolano tradisce Roma. Da patrzio quale era, della schiera più conservatrice, si oppose sempre alla plebe e alle sue richieste. Impaurito da una possibile sommossa che stava per sorgere contro la sua politica, fuggì ad Anzio, la capitale dei Volsci, si alleò con loro, si mise alla guida del loro esercito, e iniziò una marcia verso Roma. Leggenda racconta che la madre Veturia e la moglie Volumnia gli andarono incontro, ma la madre prima che lui gli si avvicinasse gli disse queste parole: "Prima che tu mi abbracci, vorrei sapere se sono venuta a far visita a mio figlio o ad un nemico della patria". A queste parole Coriolano si commosse e tornò sui suoi passi, rinunciando all'impresa.
Gli Equi, invece, furono sconfitti definitivamente nel 304 a.C. ad opera del console Publio Sempronio Sofo, dopo aver già perso una durissima battaglia nel 458 a.C. in uno scontro diventato leggendario. Si racconta che a guidare l'esercito di Roma fu Luzio Quinto Cincinnato, che mentre lavorava la terra del suo campo, ricevette la notizia di essere stato proclamato temporaneamente dittatore, e di essere stato incaricato di comandare l'esercito. Cincinnato guidò Roma alla vittoria vicino i colli Albani, nella cosiddetta battaglia dell'Algido, e dopo solo 16 giorni, tornò tranquillamente ad arare il suo campo, convinto di aver compiuto solo il suo dovere e di non dover ricevere niente in cambio.
Altro problema per Roma era rappresentato dalla vicina città etrusca di Veio, la quale rivendicava la proprietà dei depositi di sale alle foci del Tevere e della zona di Fidene.
Un'intera gens Romana fu distrutta dai Veienti, la gens Fabia, che aveva numerose proprietà terriere fino ai confini con la città etrusca. I continui attriti sfociarono in una battaglia tra l'esercito privato dei Fabi e i Veienti e alla fine i Romani caduti furono 306.
Lo scontro tra Roma e la città di Veio si protrasse per ben dieci anni, dal 406 a.C. al 396 a.C., quando Roma cinse d'assedio la città etrusca, e Marco Furio Camillo, proclamato momentaneamente dittatore, alla guida dell'esercito Romano, ebbe la brillante idea di scavare un cunicolo sotterraneo per attraversare le mura dal basso. Riuscì così a prendere di sorpresa i Veienti che furono definitivamente sconfitti.
La città di Veio fu distrutta e tutto il territorio controllato dai Veienti passò sotto il dominio di Roma, poiché la guerra era stata portata avanti individualmente, senza l'aiuto della Lega Latina. Tutta l'Etruria meridionale fino a Bolsena era ora territorio Romano.
Minaccia ancora peggiore per Roma fu rappresentata dai Galli. Erano una popolazione barbarica chiamata così dai Romani, ma che appartenevano a quei popoli celtici partiti gia dal II millennio a.C. dagli Urali, nell'attuale Russia, per espandersi a macchia d'olio un po' in tutta Europa. Era infatti un popolo che non si legava alla terra e che preferiva viaggiare molto e spostarsi continuamente senza mantenere una sede stabile.
Arrivarono anche nella Pianura Padana e cominciarono ad insediarsi in Italia in maniera sempre più massiccia. Fondarono Mediolanum, l'attuale Milano, Bononia, l'attuale Bologna, e conquistarono tutte le più importanti città del nord. Quando cominciarono ad espandersi verso il sud trovarono esigue forze etrusche e Romane pronte a contrastarli. Intorno al 390 giunsero fino a Roma. La città fu saccheggiata ma non del tutto conquistata, perché il Campidoglio risultò inespugnabile. I galli non avevano intenzione, ad ogni modo, di insediarsi a Roma, e si accontentarono di un riscatto per lasciare la città. A questo punto secondo leggenda, Furio Camillo, che pur essendo riuscito a sconfiggere Veio era stato esiliato, per il suo grande amore per Roma, sua patria, improvvisò un esercito e marciò verso Roma. La sua furia riuscì a sconfiggere i Galli, e divenne leggendaria la frase da lui pronunciata: "La patria si riscatta col ferro e non con l'oro!".
Tra le popolazioni Appenniniche, oltre Equi e Volsci, con cui Roma aveva già dimostrato il suo predominio, l'osso più duro si dimostrarono i Sanniti. Questi nel corso del V secolo si erano insediati lungo tutta la Campania, assimilandosi con il tempo alle popolazioni locali. Quando però nel IV secolo iniziarono nuove ondate di Sanniti verso queste terre, la città di Capua chiese aiuto a Roma e alla Lega Latina. Scoppiò così la Prima Guerra Sannitica (343 a.C. - 341 a.C.), che sancì la vittoria della coalizione e bloccò l'avanzare dei Sanniti.
Dopo la vittoria conseguita, però, Capua e la Lega Latina si unirono insieme e si scagliarono contro Roma, probabilmente per la preoccupazione della crescente potenza espressa da quest'ultima. Roma era ormai troppo forte effettivamente, e vinse facilmente contro i traditori, sciogliendo definitivamente la Lega Latina e inglobando sotto il suo dominio tutti i nuovi territori. La minaccia dei Sanniti intanto non era ancora debellata, e Roma per aver ragione di questo popolo, fu costretta ad altre due guerre: nella Seconda Guerra Sannitica (326 a.C. - 304 a.C.) Roma perse ben due legioni a Caudio (presso l'attuale Montesarchio a sud di Benevento). Era l'anno 321 a.C. e i prigionieri Romani furono costretti all'umiliazione delle "Forche Caudine".
Questo episodio non fece altro che unire ancora di più il fierissimo e orgoglioso popolo Romano, che con determinazione ricercò la sua vendetta sul campo. Nella Terza Guerra Sannitica (298 a.C. - 290 a.C.) Roma arriva così alla definitiva vittoria sui Sanniti. L'episodio chiave è rappresentato dalla battaglia di Sentino (vicino Camerino), detta anche Battaglia delle Nazioni, dove Roma nel 295 a.C. sconfigge gli eserciti uniti di Sanniti, Etruschi e Galli.
Roma apre in questo modo un varco verso sud, e simbolo di questo trionfo è la costruzione della Via Appia, la Regina Viarum (Regina delle vie), che mette in collegamento Roma con Capua e più tardi direttamente fino a Benevento e Brindisi. Un percorso pressoché tutto rettilineo, fondamentale per gli spostamenti militari, ma sopratutto per l'intensificarsi dei commerci.
Fu il censore Appio Claudio ad iniziare questa meravigliosa opera, che da lui prende il nome. Ma Appio Claudio, appartenente alla gens Claudia, fu in generale uno dei personaggi protagonisti della storia di Roma di questo periodo: oltre alla Via Appia, costruì anche l'Acquedotto Claudio, che portava a Roma l'acqua direttamente dalle sorgenti dell'Aniene. Ma fu anche il più grande statista dell'epoca e uno dei principali promotori di quelle riforme che avrebbero dovuto dare alla plebe maggiori diritti e poteri.
La forza di Roma e le imprese del suo esercito erano ormai sotto gli occhi di tutti, e se da un lato l'avere una grande potenza militare poteva fare comodo, come accadde nel 282 a.C., quando alcune città meridionali chiesero la presenza di guarnigioni Romane sul loro territorio per scongiurare altre invasioni di popolazioni Appenniniche (oltre ai Sanniti anche Lucani e Bruttii) e tanto bastò per mettere paura a tale avanzata, dall'altro questa super potenza preoccupava altre città che avevano forti interessi nell'Italia meridionale, e tra queste sicuramente c'era Taranto.
Roma aveva firmato con Taranto (tra il 302 e il 301 a.C.) un accordo bilaterale che fondamentalmente si riduceva ad un patto per non infastidirsi a vicenda.
Per Roma si prevedeva in particolar modo il divieto di attraversare Capo Lacinio con le sue navi, sul Mar Ionio. I Romani cercarono però di provocare Taranto, o forse come da loro affermato fu solo colpa di un forte vento inaspettato, fatto sta che dieci navi Romane da guerra attraversarono questo limite e furono attaccate. Quattro navi affondarono, le altre messe in fuga, e questo episodio rovinò i rapporti tra le due città che entrarono in guerra.
Taranto chiese subito aiuto a Pirro, Re dell'Epiro, uno Stato greco che si affacciava sul Mar Adriatico, e questi, uomo molto ambizioso, accorse con grandi forze: 25.000 uomini e schiere di elefanti.
La prima battaglia, nel 280 a.C., fu vinta da Pirro ad Eraclea, vicino Taranto, sopratutto per la presenza inquietante prodotta dagli elefanti sull'esercito Romano, che mai prima d'ora aveva visto tali enormi animali.
Una seconda vittoria di Pirro si ebbe l'anno dopo, nel 279 a.C., presso Ascoli Satriano, ma le perdite inflitte dai Romani all'esercito di Pirro furono terribili.
La battaglia definitiva fu vinta dai Romani nel 275 a.C., e Pirro fu costretto alla fuga. Il luogo dello scontro era stato Maleventum, che da quel giorno fu chiamata a ricordo della grande vittoria Beneventum, nome giunto poi fino ai giorni nostri come Benevento.
Roma continuava ad espandere il suo territorio e la sua influenza. Con la vittoria su Pirro aveva esteso il suo dominio all'estremo sud della penisola italiana, ad esclusione della Sicilia.
L'isola era però controllata da Cartagine, una super potenza dell'epoca, che aveva la sua sede in Africa settentrionale, nell'attuale Tunisia ed era stata fondata dai Fenici nel IX secolo a.C.
Aveva fatto fortuna grazie sopratutto alla sua grande flotta navale, così da estendersi sui principali porti naturali del Mediterraneo: Malta, Sardegna, Corsica, Spagna e naturalmente anche la Sicilia, che vantava una posizione geografica invidiabile, aveva terre fertilissime, e che per questo era contesa da tempo con i Greci, i loro grandi nemici.
Con Roma erano stati firmati nel corso degli anni trattati bilaterali più che altro di tipo commerciale, ma che stabilivano anche le zone dove potevano o non potevano operare.
In effetti, i rapporti tra Roma e Cartagine furono a lungo ottimi, fino a quando Roma iniziò ad allargare le sue vedute, a spingersi sempre più a sud del territorio italiano, e cominciò a desiderare di poter mettere mano alle ambite terre di Sicilia. Ogni scusa era diventata buona per entrare in conflitto con Cartagine, e l'occasione si presentò quando un esercito campano, detto dei Mamertini, che era stato arruolato dal greco Agatocle a Siracusa, si sollevò alla morte di questi nel 289 a.C. e occupò la città di Messina.
I Mamertini per difendere la città chiesero aiuto sia ai Cartaginesi e sia ai Romani, i quali però stando ai patti non potevano entrare in territorio siciliano. Ci fu una lunga discussione al senato, ma alla fine il console Appio Claudio fu posto alla guida dell'esercito, che sbarcato in Sicilia prese di sorpresa i Cartaginesi.
Scoppia così la Prima Guerra Punica (chiamata così perché i cartaginesi erano chiamati Puni dai Romani) che si protrarrà tra il 264 a.C. e il 241 a.C. e che vedrà la predominanza di Roma; quattro legioni, nel 263 a.C., guidate dai consoli Manio Valerio Massimo e Manio Otacilio Crasso, sconfiggono con apparente facilità, e attraverso ripetuti scontri, l'esercito cartaginese e quello siracusano uniti per l'occasione.
Ancora più significativa fu la vittoria conseguita via mare, là dove Cartagine non aveva rivali al mondo, nel 260 a.C., nei pressi di Milae, l'attuale Milazzo. Si dimostrò fondamentale, a tale riguardo, l'astuzia del generale Romano Caio Duilio; creata praticamente dal nulla la prima flotta Romana, equipaggiò le navi di torri e di ingegnosi ponti levatoi, detti corvi, che si conficcavano nelle navi nemiche e che permettevano ai soldati di salire sulle imbarcazioni cartaginesi: erano state inventate le prime navi rostrate. Lo scontro navale fu così trasformato in mischia corpo a corpo, dove i Romani non avevano rivali, e la vittoria fu schiacciante: 3000 cartaginesi caduti, 7000 prigionieri fatti e un terzo della flotta distrutto. Il genio dei generali Romani sarà, nel tempo, una predominante fondamentale nei successi dell'esercito, che raggiungerà il suo culmine con le incredibili trovate tattiche e creative di Giulio Cesare.
A Caio Duilio era stato concesso il trionfo a Roma, ma si era coscienti che via mare Cartagine era ancora molto forte; si attesero così quattro anni, utili per organizzare una seconda grande flotta, dopo di che, fu lanciata una nuova spedizione, anche per prevenire un'eventuale azione di rivincita cartaginese. La flotta Romana fu affidata a due consoli, Marco Attilio Regolo e Lucio Manlio Vulsone. Arriva così nel 256 a.C., sempre via mare, intorno alla Sicilia, presso Capo Ecnomo (l'attuale Castel Sant'Angelo), un'altra grande vittoria di Roma. La battaglia navale entra nella storia per mezzi e uomini utilizzati: circa 250 navi cartaginesi, 300 navi Romane, 150.000 uomini, una delle più imponenti guerre combattute via mare che la memoria storica ricordi. Il successo ebbe una incredibile eco in tutto il Mediterraneo e permise ai Romani di sbarcare fino in Africa, in territorio cartaginese.
Con l'arrivo dei Romani, la popolazione dei Numidi, sottomessa dai cartaginesi, si ribellò contro gli oppressori, andando ulteriormente ad indebolire il potere di Cartagine.
Tutto insomma sembrava mettersi al meglio, ma iniziarono anche per Roma i problemi: si peccò di fretta e spregiudicatezza e mentre Lucio Manlio Vulsone era rientrato a Roma per riferire delle imprese, e cercare nuovi rinforzi per sottomettere definitivamente Cartagine, Attilio Regolo rimasto in Africa rifiuta un trattato di pace, e alla ricerca di gloria personale, si mette in marcia con il suo esercito direttamente contro la città di Cartagine. Le forze troppo esigue (circa 20.000 uomini) vengono sconfitte dagli africani, rafforzatisi con l'innesto di truppe alleate nel 255 a.C.
La fortuna volta le spalle a Roma e una guerra già vinta si trasforma in un incubo: la spedizione navale organizzata per recuperare i sopravissuti viene colpita da una tempesta e l'intera flotta viene annientata presso Camarina, e l'anno seguente presso Capo Palinuro, altre 150 navi rimangono coinvolte in un episodio analogo senza possibilità di scampo.
I Romani però non mollarono l'impresa e cercarono di rifarsi via terra, direttamente in Sicilia. Sullo scontro aperto l'esercito Romano, non aveva rivali, tanto che circa 30.000 cartaginesi furono catturati e resi schiavi e Palermo completamente occupata. Cartagine era cosciente della potenza di Roma nel corpo a corpo, e decise quindi, con il suo generale Amilcare, di cambiare tattica, scegliendo di passare ad una serie di incursioni veloci di guerriglia urbana, che impedivano ai Romani di esplicitare la loro forza in campo aperto, con il risultato di sfiancarli continuamente.
Roma capì presto che una guerra con questi crismi sarebbe andata troppo per le lunghe, e con un enorme sforzo economico, decide di costruire una nuova efficientissima e moderna flotta. Nel 241 a.C. presso le isole Egadi per i cartaginesi non ci fu scampo: furono catturate 70 navi e 50 vennero completamente distrutte, sotto il comando del console Gaio Lutazio Catulo.
La Prima Guerra Punica era conclusa, Cartagine sconfitta e costretta a pagare a Roma una forte indennità di guerra: il conto salatissimo fu di 3200 talenti.
Fu estremamente difficile per i cartaginesi riuscire a risollevarsi da questo duro colpo, sopratutto considerando che dovette fronteggiare gravi difficoltà anche al suo interno: la sollevazione delle popolazioni libiche stanche dello sfruttamento attuato da Cartagine e la rivolta del suo esercito, che a differenza di quello Romano era formato completamente da mercenari, i quali pretendevano l'immediato pagamento del loro servizio offerto, nonostante le difficoltà economiche dello Stato africano.
Con facilità, data la situazione delicatissima attraversata da Cartagine, Roma coglie al volo l'occasione e si impadronisce anche della Sardegna e della Corsica (238-237 a.C.).
Nacquero così le prime colonie Romane; Roma, infatti, accortasi che il territorio sotto il suo controllo si andava sempre più espandendo, e che erano state assoggettate ora anche zone molto lontane, decise di trasformare dal 227 a.C. la Sicilia, la Sardegna e la Corsica in province, affidate ad un pretore, nella veste di unico magistrato, a cui per un anno veniva affidato il potere civile e militare. Con la formazione delle province, i popoli sottomessi non furono più considerati socii, alleati, bensì sudditi, privi di diritti politici e costretti a pagare annualmente un tributo all'erario di Roma.
Messa da parte per il momento la minaccia di Cartagine, Roma si dedica nuovamente a risolvere importanti questioni in territorio italico. I commerci sulle coste adriatiche della penisola, erano in questo periodo continuamente minacciate dai pirati dell'Illiria, uno Stato situato nella zona dell'attuale Jugoslavia e Albania. I Romani inviarono così alla regina dell'Illiria, Teuta, nel 230 a.C. degli ambasciatori per cercare di risolvere diplomaticamente la questione. Le richieste avanzate da Roma non furono accettate, e la risposta militare Romana fu devastante: 200 navi e 20.000 uomini nel 229 a.C. sconfissero senza possibilità di scampo l'Illiria, costretta a dure condizioni di resa. Dovettero cedere delle isole a Roma, pagare un tributo, evitare di navigare nello Ionio con più di due navi insieme. I patti furono però sistematicamente violati e nel 219 a.C. Roma entra nuovamente in Illiria meridionale (attuale Albania) occupandola definitivamente.
Sempre in territorio italiano un altro grattacapo per Roma fu rappresentato dalle tribù galliche, che, nel 226 a.C. iniziarono ad espandersi verso sud, giungendo fino in Umbria ed in Etruria. Roma parte al contrattacco nel 225 a.C. e presso Telamone sbaraglia i nemici, continuando nella sua offensiva verso il nord Italia, e arrivando a conquistare i possedimenti gallici nella penisola. Due grandi vittorie sono ricordate in questa avanzata: quella di Gaio Flaminio nel 223 a.C. presso il fiume Oglio e sopratutto quella di Marco Claudio Marcello nel 222 a.C. a Clastidium (l'attuale Casteggio vicino Pavia), dove il generale Romano sconfisse in duello con le sue mani il comandante nemico, meritandosi così l'onore di ricevere le "Spoliae Opimae".
Buona parte dell'Italia settentrionale era ora sotto il dominio Romano, compresa Mediolanum (l'attuale Milano) con la Lombardia e la fertile Pianura Padana. Nella zona i Romani fondarono Cremona e Piacenza.
Risolti i problemi interni, Roma dovette nuovamente fronteggiare la minaccia cartaginese. Lo Stato africano riuscì infatti nel corso di un ventennio a risollevarsi e a trovare nuova linfa per combattere Roma. Persi i naturali porti del Mediterraneo (Sicilia, Sardegna e Corsica), visto lo sbarramento Romano intorno all'Italia, intuì quale grande ricchezza poteva venirgli dalla penisola Iberica. Cartagine iniziò così la conquista della Spagna, e le grandi ricchezze che vi trovò (come le miniere d'argento della Sierra Morena) gli permisero di ristabilire una solidità economica e di pagare addirittura in anticipo la somma di denaro dovuta a Roma.
Sotto la guida dei suoi generali Amilcare e Asdrubale, Cartagine cominciò ad annettersi sempre più territori iberici, fin quando Roma non intervenne imponendo un trattato che vietava ai cartaginesi di spingersi oltre il fiume spagnolo dell'Ebro.
I problemi veri per Roma iniziarono però quando il comando dell'esercito cartaginese, passò ad Annibale, un giovanissimo generale, dalle grandi qualità. Annibale iniziò l'assedio di Sagunto, una città situata nella zona cartaginese, ma che era alleata dei Romani. Questi chiesero dunque il ritiro dei cartaginesi, e al loro rifiuto scoppiò la Seconda Guerra Punica (dal 218 a.C. al 201 a.C.). Dichiarata guerra Annibale puntò tutta la sua tattica sulla velocità e la sorpresa, e la sua avanzata fu devastante. Con circa 70.000 uomini attraversa i Pirenei prima e le Alpi poi presso il passo del Monginevro, e si scontra per la prima volta con un esercito Romano presso la confluenza tra Ticino e Po, sconfiggendo, pur senza gravi danni, le legioni guidate da Publio Cornelio Scipione nel 218 a.C.
Frattanto la reazione strategica e geniale di Roma fu altrettanto tempestiva, e due legioni guidate da Gneo Scipione furono inviate in Spagna, in modo tale da bloccare i rifornimenti per Annibale e di isolarlo nella sua avanzata.
Annibale intanto era lanciatissimo nella sua impresa, e alla Trebbia sconfigge anche gli eserciti congiunti di Scipione e Tiberio Sempronio Longo nel 218 a.C.
A queste notizie le popolazioni da poco sottomesse nella Val Padana (Galli Insubri e Boi) si ribellarono contro Roma. Ancora una terribile sconfitta con 25.000 caduti venne subita nel 217 a.C. presso il Trasimeno, dove cadde anche Gaio Flaminio a capo delle legioni. Annibale liberandosi la strada continua la sua marcia verso il Mezzogiorno, incitando tutte le popolazioni a ribellarsi a Roma e promettendo ovunque indipendenza dagli usurpatori.
Viste le gravi difficoltà Roma affida temporaneamente i poteri ad un dittatore per gestire meglio e con efficacia gli imprevisti pericoli. Viene assegnato alla magistratura straordinaria Quinto Fabio Massimo nel 217 a.C., che sceglie di adottare una nuova strategia militare, con attacchi brevi e veloci, con azioni di disturbo e imprevedibili, cercando sempre di evitare lo scontro campale, ben sapendo che Annibale non avrebbe trovato rifornimenti all'infinito. Proprio per questa tattica, Fabio Massimo fu nominato (in senso dispregiativo) Cunctator "temporeggiatore".
Il fiero e orgoglioso popolo Romano voleva però una grande rivincita, una grande battaglia definitiva, e per questo dopo sei mesi, allo scadere del mandato di Fabio Massimo, i due consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone, si misero nel 216 a.C. alla testa di un grande esercito da opporre ad Annibale. Lo scontro avvenne presso Canne, ma dopo un valoroso inizio dell'esercito Romano, con brillanti mosse tattiche Annibale riesce a circondare i Romani, sconfiggendoli sul campo con una terribile strage di uomini; circa 45.000 caduti e 4 legioni annientate.
Dopo questo evento Sanniti, Apuli, Bruzi, Lucani, Capua, Taranto, Metaponto, Siracusa e altre città della Magna Grecia, passano velocemente dalla parte di Cartagine, offrendo la loro alleanza e aprendo le porte delle loro città. Anche Filippo V, Re di Macedonia, si allea con Cartagine ed entra in guerra contro Roma.
La situazione sembrava volgere al peggio, ma le previsioni fatte da Annibale non si attuarono del tutto. Le defezioni dei veri alleati di Roma non ci furono, e Latini, Etruschi, Umbri e Sabelli non tradirono la fedeltà loro concessa, costituendo un insuperabile anello di protezione per Roma. La fierezza delle genti locali, e gli abili rapporti politici intrecciati con Roma, non avrebbero mai spinto tali popolazioni ad accettare la sottomissione cartaginese. Inoltre l'iniziativa bellica di Filippo V, Re di Macedonia, fu bloccata sul nascere dai Romani, che fermarono i Macedoni nel territorio dell'Illiria con pochi uomini e gli scatenarono contro nel 215 a.C. la rivolta di Sparta e della Lega Eolica, che terrà impegnata la Macedonia per un decennio (Prima Guerra Macedonica 215 a.C - 205 a.C.).
Roma riconquista poi, tra il 213 a.C. e il 211 a.C., Siracusa e Capua, infliggendogli punizioni durissime per il loro tradimento. Nello stesso tempo Roma aveva iniziato in Spagna una serie di missioni militari, volte ad indebolire sempre di più il potere di Cartagine nella penisola Iberica, un po' come stava facendo Annibale in Italia contro i Romani.
Ma la vera svolta per Roma, fu l'avvento di un giovanissimo generale, Publio Cornelio Scipione, che portava lo stesso nome del padre il quale era stato sconfitto presso il Ticino proprio da Annibale. A Roma serviva infatti un nuovo grande condottiero, abile in battaglia, ingegnoso tatticamente e dal forte carattere, in grado di risollevare le sorti di Roma nella guerra contro Cartagine. Tutto questo Roma lo aveva ora trovato in Scipione, il quale dopo aver conseguito una serie di successi in terra di Spagna, si presentò all'attenzione generale con una grandissima vittoria presso Metauro nel 207 a.C., dove distrusse l'esercito cartaginese guidato da Asdrubale, che era entrato in Italia con l'intento di unirsi al fratello Annibale. Lo stesso Asdrubale cadde nella battaglia.
Ma la genialità e l'audacia di Scipione si manifestarono completamente quando decise di intraprendere una campagna militare in Africa, direttamente alla conquista di Cartagine, mentre Annibale si trovava ancora in Italia. Forte di un dominio ormai totale di Roma sul mare, Scipione arriva sulle coste africane nel 204 a.C., con un grande esercito, e si allea immediatamente con Massinissa, principe pretendente al trono della Numidia. Subito nel 203 a.C. Scipione riporta una vittoria militare ai Campi Magni, presso Tunisi, tanto che Cartagine richiamò in patria Annibale per l'ultimo disperato tentativo di difesa. Il geniale piano di Scipione si era attuato: dalla difesa, Roma, aveva capovolto la situazione passando all'attacco, e con una sola mossa era arrivata con un suo esercito direttamente in Africa, aveva liberato l'Italia dalla minaccia di Annibale costretto a tornare in patria, e ora poteva finalmente prepararsi allo scontro definitivo contro Cartagine.
La battaglia finale si svolgerà a Zama, nel 202 a.C., e metterà di fronte due grandi generali: Scipione da una parte e Annibale dall'altra. I cartaginesi furono completamente annientati, e Annibale dovette subire oltre al danno anche la beffa. Il suo esercito fu infatti circondato con abili mosse tattiche da Scipione, proprio come spesso aveva fato lui stesso nelle battaglie contro Roma. Cartagine fu costretta alla resa e si concluse così la Seconda Guerra Punica.
Le condizioni di pace imposte da Roma furono talmente dure, che fu coniato da quel momento il detto di "pace cartaginese" usata a lungo nel corso del tempo. Cartagine fu costretta a pagare un'indennità di guerra di 10.000 talenti d'argento, a rinunciare alla Spagna e a tutti i possedimenti al di fuori dell'Africa, a consegnare l'intera flotta (ad esclusione di dieci navi) e a chiedere a Roma il permesso per qualsiasi campagna militare, anche se provocati o nel giusto. Per Cartagine tutto questo significò il declino della sua civiltà e la fine della sua potenza militare.
Annibale tradito più volte, anche dai suoi stessi compatrioti, si toglierà la vita nel 183 a.C., mentre Scipione dopo la sua grande impresa divenne princeps, ossia presidente del senato, fu ribattezzato simbolicamente Scipione l'Africano per la conquista di Cartagine, e tale fu la considerazione conquistata, che i discendenti della sua famiglia, i Cornelii, ottennero il consolato per ben sette volte.
Dopo la conclusione della Seconda Guerra Punica si potrebbe pensare ad una sosta delle attività militari di Roma, ma così non fu. Il delicato equilibrio geopolitico dell'epoca e i grandi stravolgimenti in atto, uniti dal grande orgoglio insito sin dalle origine nel popolo Romano, desideroso di portare ovunque il suo dominio, spinse Roma già nel 200 a.C. ad entrare in guerra contro la Macedonia. L'aiuto di Roma fu richiesto nell'occasione da alcune comunità greche, tra cui la città di Atene, che in vista di perdere la loro autonomia per la pressante minaccia macedone, chiesero a Roma di intervenire. Dichiarata guerra alla Macedonia per la seconda volta (era già accaduto nella Seconda Guerra Punica), Roma invia un esercito guidato da Tito Quinzio Flaminio, che nel 197 a.C. sconfigge senza troppi affanni i macedoni di Filippo V, provvisti di una organizzazione tattica a livello militare del tutto superata rispetto all'effeciente e moderno esercito Romano. Lo scontro avvenuto a Cinoscefale in Tessaglia costringe subito la Macedonia a chiedere la pace, firmata l'anno seguente a Tempe, che sanciva il ritiro incondizionato dal territorio autonomo greco da parte dei macedoni, e la consegna della flotta ai Romani.
Flaminio tra lo stupore generale dei Greci, che sfociò in gioia irrefrenabile, dichiarò l'assoluta indipendenza degli ellenici, e tutto l'esercito Romano al completo abbandonò la penisola greca.
Contemporaneamente Roma pensava a risistemare anche i suoi possedimenti nella penisola Italiana, ancora sconvolta dalle scorribande di Annibale, punendo severamente i popoli traditori, che avevano appoggiato i cartaginesi durante la guerra. Nel nord-Italia l'esercito dovette intervenire contro i Galli schieratosi contro Roma nella Seconda Guerra Punica, ma che non avevano deposto le armi neanche dopo la caduta di Cartagine. Nel 196 a.C. l'esercito guidato da Scipione Nasica domina gli Insubri, mentre nel 191 a.C. cadono i Boi insediati in un vasto territorio che da Rimini saliva fino a Piacenza. In questo anno la Gallia Cisalpina, nome con cui usualmente era chiamata l'Italia settentrionale, ormai sotto il controllo di Roma, divenne provincia Romana. Nuove colonie Romane sorsero in questo periodo, tra le quali: Parma, Modena e, dopo che il dominio Romano si protrasse negli anni seguenti anche all'Istria, alla Dalmazia, alla Liguria e al Veneto, fu fondata anche Aquilea, come avamposto dei confini orientali dalla minaccia degli Illiri.
A sud tra le nuove colonie fu fondata Pozzuoli.
Anche in Spagna si procedette con la conquista definitiva della penisola , ma per giungere a tale obiettivo fu necessario scontrarsi con i popoli locali dei Lusitani e dei Celtiberi. In Spagna furono create due provincie: Hispania Citerior e Hispania Ulterior.
Una breve parentesi fu rappresentata dalla Siria e dal suo Re Antioco, sconfitti primi alle Termopili nel 191 a.C. e poi, definitivamente, a Magnesia, nell'Asia minore nel 189 a.C. pur contro forze superiori in numero. Proprio alla corte di Antioco si era rifugiato Annibale per sfuggire ai Romani, e qui stava cercando di fomentare iniziative contro i suoi antichi nemici. Ma il potere ormai inarrestbile di Roma gli fece preferire il suicidio, paradossalmente nello stesso anno in cui morì Scipione l'Africano da cui era derivata la sua definitiva sconfitta e conseguente rovina: era il 183 a.C.
E singolare è anche il fatto che l'esercito vittorioso contro la Siria, la quale era consigliata nelle sue mosse da Annibale, era guidato dal fratello di Scipione l'Africano, Lucio Cornelio Scipione; per Annibale gli Scipioni saranno un vero e proprio incubo.
Nel frattempo i Greci gelossissimi della propria autonomia, guardavano con crescente disappunto la presenza sempre più massiccia di legioni Romane intorno ai loro territori, pur se era stata la stessa Roma ad assicurare alle popolazioni Greche l'indipendenza negli anni precedenti e nonostante avesse rinunciato a mire espansionistiche su quei territori. Crescenti fazioni anti-Romane nascevano e alzavano la voce, e questa situazione spinse la Macedonia a rientrare in guerra contro Roma appoggiando questi movimenti di rivolta, alleandosi con il Re degli Illiri (Genzio) e sperando in un coinvolgimento dell'Epiro e la Grecia tutta. Ma a Pidna nel 168 a.C. Perseo di Macedonia, figlio di Filippo V, fu duramente sconfitto per opera di Lucio Emilio Paolo e trascinato a Roma come prigioniero nel corteo trionfale.
Si conclude così la Terza Guerra Macedonica (171 a.C - 168 a.C.) e cade per sempre il grande regno che sotto Alessandro Magno era diventato uno dei più grandi imperi della storia.
Roma impose nelle condizioni di pace tutta la sua rabbia per questa sciocca iniziativa, dividendo il regno di Macedonia e dell'Illiria in quattro piccole repubbliche tributarie di Roma (in seguito diventeranno una Provincia Romana), pretendendo 1000 ostaggi dalla Lega achea (una confederazione di città del Peloponneso) che aveva mantenuto un comportamento ostile a Roma nella guerra contro Perseo (uno degli ostaggi sarà il grande storico Polibio, che in seguito rimarrà affascinato da Roma e dalla sua grandezza, e prenderà l'iniziativa di scrivere una storia di Roma), 150.000 abitanti dell'Epiro passati a Perseo furono venduti all'asta come schiavi, gli altri furono uccisi, a Eumene Re di Pergamo, furono sottratte delle popolazioni e Rodi fu annientata dal punto di vista economico, privata totalmente dei traffici commerciali che lì erano estremamente fiorenti. Il bottino totale per Roma fu talmente ragguardevole che i cittadini Romani furono esentati dal pagare l'annuale tributum, vale a dire la tassa a seconda del censo di appartenenza.
Nel 148 a.C. la Macedonia diventa ufficialmente e definitivamente provincia Romana, dopo un nuovo tentativo di ribellione sedato dal console Quinto Cecilio Metello. La provincia fu collegata all'Italia tramite la via Egnazia che si protraeva da Tessalonica a Durazzo e da qui con un collegamento via mare con approdo al porto di Brindisi.
Nel 146 a.C. anche la Grecia tenta la via della ribellione, con l'intento di rimpadronirsi di Sparta nonostante il veto negativo di Roma. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso; la Grecia viene sconfitta e costretta a pagare un tributo. Passa sotto il controllo del governatore della Macedonia, e subisce il saccheggio e la distruzione di Corinto: statue, quadri, gioielli e preziosi di ogni genere, vasellame, tutto è requisito dai Romani, che vendono all'asta o spediscono in Italia i beni. Il bottino è enorme considerando che Corinto era una delle principali città della Grecia.
Da questo momento Roma entra in contatto definitivamente con la civiltà e la cultura greca, che influenzerà il modo di vivere e di pensare dei Romani nei secoli a venire. Bisogna comunque precisare che non tutti erano affscinati a Roma dalla cultura greca, sinonimo di debolezza, di corruzione, di decadenza. La Grecia fondava il suo stile di vita sull'ozio, sul tempo libero, sull'arricchimento spirituale, mentre Roma si fondava sulle tradizioni dei suoi antenati, sull'orgoglio, la voglia di dominio e supremazia, tutto girava intorno ai negozi pubblici. Due società profondamente diverse, tanto che si formarono due opposte fazioni: chi come Catone temeva che l'abbandonarsi all'influenza ellenistica avrebbe comportato la decadenza della gloriosa civiltà Romana, e che come gli Scipioni che ammiravano la cultura e l'arte ellenistica. Roma seppe trarre il meglio da questa situazione, mantenendo le sue caratteristiche peculiari ma crescendo dal punto di vista artistico (scultoreo, pittorico, letterario, filosofico) grazie all'influenza greca.
Sempre nel 146 a.C. mentre Corinto veniva distrutta, Roma si lancia nella Terza Guerra Punica. In realtà Cartagine non mirava più a mire espansionistiche, ma a Roma prevaleva il partito della guerra di prevenzione, timorosi che i traffici commerciali di Cartagine potessero risollevare le sorti della città. la classe dirigente che spingeva fortemente per l'entrata in guerra contro Cartagine era quella più tradizionalista capeggiata da Marco Porcio Catone.
Ceterum censeo
Cartheginem esse delendam
(D'altra parte penso che
Cartagine vada distrutta).
Intervento di Catone al Senato
Quando Cartagine decide di dichiarare guerra alla Numidia senza chiedere il permesso a Roma, violando così il trattato del 201 a.C., Roma decide per l'intervento militare.
Cartagine accetta subito le condizioni di resa offerte da Roma, tra cui la consegna delle armi, degli elefanti e dei macchianri da guerra, più 300 ostaggi, ma nel frattempo due legioni Romane erano già sbarcate in Africa con una richiesta ritenuta inacettabile. Abbandonare completamente la città e ricostruirla ad una distanza di 15 Km dal mare. I Cartaginesi rifiutarono senza appello la proposta, e si chiusero nelle mura della città pronti per una estenuante difesa. L'assedio Romano durò ben tre anni, ma alla fine Cartagine cadde e venne distrutta. Infatti dopo i primi due anni senza grandi progressi, l'assedio fu affidato a Publio Cornelio Scipione Emiliano, figlio adottivo di Scipione l'Africano, che riorganizzò l'esercito, bloccò i rifornimenti alla città, la sfiancò duramente e alla fine lanciò l'assalto finale. I cartaginesi resistettero valorosamente fine alla fine con durissimi combattimenti per le strade e casa per casa, ma alla fine anche Cartagine cadde e la popolazione o perì in battaglia o venne resa schiava. I pochi superstiti emigrarono, così che il territorio che divenne provincia Romana d'Africa fu popolato al più da coloni. Un'altra grande civiltà dalle antiche origini era caduta e scomparsa per sempre. Roma era diventata padrona del Mediterraneo che orgogliosamente definì "Mare Nostrum". Dopo quest'epoca di grandi conquiste Roma si ritrova profondamente cambiata: comincia a prendere il soppravvento l'attrazione verso la cultura greca, ma anche verso il suo ozio, comincia a diffondersi la piaga della corruzione, si segnalano duri scontri sociali tra aristocratici e plebei nella delicata faccenda della riforma agraria. Tiberio Gracco eletto tribuno della plebe nel 133 a.C. si fa portavoce delle classi più disagiate, propone una rivoluzionaria riforma agraria, ma la sua tenacia lo porta ad essere assassinato da un gruppo di patrizi. Stessa sorte toccò al fratello Caio Gracco, tribuno dall'ano 123 a.C. propositore di leggi a favore della plebe e dei popoli italici tutti, ucciso da una insurrezione alimentata dall'aristocrazia.
In questo periodo storico così delicato, una nuova crisi di politica internazionale, mette in luce con chiarezza la diffusa corruzione imperante nell'aristocrazia Romana. Nel regno di Numidia, in Africa, nell'attuale Algeria, salì al trono Giugurta. Questi iniziò una serie di atti criminali per eliminare gli altri pretendenti al trono, e nell'assediare la città di Cirta, l'attuale Costantina, per eliminare Aderbale, arrivò ad uccidere lui, i suoi uomini, ma anche i commercianti Romani e Italici che avevano contribuito alla difesa della città. Roma decide quindi di intervenire, nonostante la storica amicizia con la Numidia, ma il console inviato Calpurnio Bestia giunse ad una frettolosa ed inspiegabile pace nel 111 a.C. che non comportava conseguenze per Giugurta. Si cominciò presto a vociferare che la pace era stata comprata con l'oro.
Le forti proteste dei mercanti però costrinsero Roma ad un nuovo intervento, ma senza decisione e convinzione alcuna, così che, stancamente, il conflitto si protraeva senza risultati di rilievo. In questa situazione di stallo e di malessere crescente, spunta finalmente l'uomo in grado di dare una nuova svolta alla politica militare Romana: Gaio Mario. Un homo novus così come si diceva all'epoca, cioè senza una famiglia nobiliare alle spalle, ma l'uomo giusto che serviva a Roma. Eletto console nel 107 a.C. fu inviato in Numidia per risolvere la questione, e tempo un anno vinse la guerra, catturò Giugurta e lo trascinò in catene nella parata del trionfo che gli era stata dedicata. L'ascesa di Mario fu inarrestabile. Dopo le imprese africane fu inviato infatti contro le popolazioni barbare dei Cimbri e Teutoni. Questi riunitisi in un grande esercito avevano massacrato circa 60.000 Romani guidati dal console Servilio Cepione, in una delle battagie più tristi nella storia di Roma combattuta ad Aurasio, lungo il corso inferiore del Rodano. Il panico si diffuse nella penisola italica, intere comunità si preparavano a fuggire e tutti cominciarono a temere una situazione analoga a quella creata da Annibale. Mario però, rieletto console, con due battaglie, prima nel 102 a.C. ad Aquae Sextiae, nell'attuale Aix a nord di Marsiglia, dove con 30.000 al massimo 40.000 uomini ne sconfisse almeno 100.000 e nel 101 a.C. ai Capii Raudii, presso Vercelli, dove uccise 65.000 nemici, distrusse rispettivamente i Teutoni e i Cimbri, dimostrando tutto il suo coraggio e la sua valenza militare di grande generale. Tornato a Roma celebrò il secondo trionfo, accolto come salvatore della patria. Fu denominato addirittura "Secondo Romolo", come se avesse nuovamnete fondato Roma una seconda volta, e, come nessun altro prima di lui, dopo esser stato eletto console nel 107 a.C. ricevette la medesima carica in modo consecutivo dal 104 a.C. al 100 a.C., e poi nuovamente nell'86 a.C. per un complessivo record di 7 volte.
Il problema di Mario era che la sua grande capacità militare non era accompagnata da un'altrettanto valida bravura politica, ed alcuni sbagli commessi da console lo portarono al declinio. Grazie a Mario, infatti, i democratici avevano ripreso coraggio e intraprendenza, e sulla stessa riga intrapresa in precedenza dai gracchi, vennero proposte nuove leggi in favore della plebe. La reazione dei conservatori fu però durissima, nuovi gravissimi scontri sociali si accesero per tutta la città, e Mario colto da timore per quello che stava succedendo decide di abbandonare i suoi alleati nel momento più importante dello scontro sociale, in quello che si può definire un vero e proprio tradimento politico. Quando la situazione si tranquilizzò, Mario capì che la sua carriera politica a Roma era ormai del tutto compromessa, avverso da sempre agli occhi dei conservatori e ora anche a quelli dei democratici. Accetta quindi un incarico politico nel lontano Oriente che segnerà la sua definitiva uscita dalla scena.
Mario comunque aveva lasciato il segno non solo con le sue imprese militari, ma anche grazie alla riforma da lui promossa dell'esercito Romano. (VEDI PAGINA). I problemi interni, comunque, rimanevano gravi; anche un altro tribuno della plebe, Marco Livio Druso, favorevole ad una riforma politica rivoluzionaria con aiuti alle classi sociali più disagiate e l'estensione della cittadinanza Romana a tutti gli Italici, venne crudelmente assassinato. Così dopo Tiberio Gracco, Gaio Gracco e Saturnino, anche Druso per aver osato sfidare il potere consolidato dell'aristocrazia Romana, fu vittima di una congiura. Eppure Roma pagherà caro il non aver appoggiato la politica e le riforme proposte da Druso ed in particolar modo il non aver esteso la cittadinanza Romana a tutti gli Italici. Nel 90 a.C. infatti, le popolazoni di Lucani, Sanniti, Marsi, Peligni, Piceni e Vestini si unirono tra loro, composero un esercito di circa 100.000 uomini, tutti veterani dell'esercito Romano, e ponendo la loro base strategica nella città di Corfinium, in Abruzzo vicino l'Aquila, ribattezzata Italica per l'occasione, dichiararono guerra a Roma. La guerra si protrasse per tre anni, con gravi perdite da entrambe le parti, fino all'epilogo della presa di Corfinium da parte di Lucio Cornelio Silla. La cittadinanza Romana fu concessa prima ai popoli Italici rimasti fedeli (Galli, Umbri ed Etruschi), ma in seguito anche alle popolazioni ribelli, che nonostante la sconfitta militare riuscirono alla fine ad ottenere quanto chiedevano. La cittadinanza Romana fu così estesa a tutta l'Italia pur se dopo una dolorosa guerra sociale (detta così da socius=alleato).
Quando scoppiò nelle provincie orientali una gravissima insurrezione, capitanata da Mitridate VI Eupotore, sovrano del Ponto, un piccolo regno della Cappadocia, che portò all'uccisione in un solo giorno di 80.000 Italici residenti in Asa e al coinvolgimento dei Greci, Roma affidò nuovamente le sue truppe a Silla. Costui nemico dichiarato dei democratici, se avesse conseguito un importante successo militare, si sarebbe trovato le porte spalancate per una futura carriera politica. Così i democratici, con un plebiscito popolare, riuscirono a far annullare la sua campagna militare. Silla infuriato ed avido di potere, reagì come nessuno prima di lui aveva osato; entrò a Roma con tutte le sue fedeli legioni, nonostante la capitale fosse territorio invalicabile per le truppe militari. Il gesto a livello simbolico fu gravissimo, sminuendo in un sol colpo le varie istituzioni e leggi repubblicane, e inaugurando un gesto gravissimo che sarà ripreso nel tempo a venire da altri generali Romani. Per la prima volta l'esercito non era usato per il bene di Roma ma per scopi personali. Questa situazione possibile dopo le riforme promosse da Mario, che aveva creato truppe professioniste formate da proletari e provinciali, legati più ai loro generali che a Roma, si ripercosse paradossalmente proprio contro lo stesso Mario che desideroso di ritornare protagonista della vita politica Romana, si era rifatto vivo nella capitale, subito però costretto a rimettersi da parte per l'intervento dei fedelissimi di Silla. A Roma i sillani si liberarono con facilità dei democratici e di tutti i politici più scomodi. Quindi Silla si diresse in Oriente dove velocemente liquidò Mitridate, battuto a Cheronea nell 87 a.C. e a Orcomeno nell'86 a.C. Silla avrebbe sicuramente potuto continuare la sua campagna militare, distruggere del tutto il Ponto, mostrare quanto forte fosse la vendeta di Roma, ma volendo tornare più presto possibile nella capitale per sistemare la situazione, concede a Mitridate la resa nell'85 a.C. che porta ad un semplice ridimensionamento del regno del Ponto, e al pagamento di tutti i tributi arretrati più una indennità di guerra per tutta l'Asia.
Tornato in Italia Silla si ritrova opposto le forze militari dei democratici e dei Sanniti pronti a combattere per non farlo salire al potere. Per quasi due anni la penisola fu sconvolta dalla guerra civile, ed alla fine Silla appoggiato da Licinio Crasso e Gneo Pompeo, ebbe la meglio grazie alla vittoria nell'82 a.C. a Porta Collina contro i Sanniti. Giunto a Roma Silla inaugura un vero e proprio periodo del terrore, con uccisioni violente e repressioni di tutti gli uomini contrari al suo operato. Egli diramò delle tavole di proscrizione con nomi di tutti i nemici da eliminare, che potevano essere uccisi da chiunque ed in qualunque posto si trovassero. Si proclamò dittatore a tempo indeterminato, eliminando di fatto tutti quei diritti che con secoli di sofferenze e lotte sociali i democratici erano riusciti a conquistare. Silla si ritirerà a vita privata nell'79 a.C. morendo un anno dopo.
Dopo la morte di Silla la scena politica Romana fu dominata per una serie di favorevoli circostanze da Gneo Pompeo e Crasso entrambi sostenitori di vecchia data di Silla. Il primo arrichitosi grazie all'eredita ricevuta dal padre si occupò di ristabilire l'ordine nella penisola Iberica dove si erano rifugiati i democratici fuggiaschi perseguitati da Silla. Questi guidati da Sertorio e alleati anche con i pirati e con Mitridate che aveva nel frattempo ripreso le sue campagne anti-Romane avevano iniziato una sollevazione popolare appogiato dalle tribù locali. La situazione aveva richiesto l'intervento militare di Roma, e fu inviato a risolvere il problema Pompeo nel 76 a.C.
La spedizione non si dimostrò facile, i combattenti di Sertorio conoscevano bene il territorio e praticavano con efficacia la guerriglia, ma poco a poco con l'astuzia, i favori, corrompendo uomini chiave, Pompeo riuscì ad ottenere quello che voleva; Sertorio tratto in inganno fu infatti ucciso a tradimento nel 72 a.C. da Perperna, suo uomo di fiducia, poi anche lui a sua volta giustiziato da Pompeo. La ribellione spagnola si disintegrò facilmente dopo la perdita di Sertorio, mettendo in evidenza tutte le contraddizioni e le spaccature del movimento.
Crasso invece si occupò di ristabilire l'ordine nel territorio Italiano funestato dalla ribellione di schiavi guidati da Spartaco. Questi evasi da una scuola gladiatoria situata a Capua, tentarono la fuga per riconquistare la libertà. Ma a loro si aggiunsero migliaia di seguaci che formarono un potente e ben addestrato esercito. Roma sottovalutò il problema inizialmente cercando di ristabilire l'ordine con semplici interventi di polizia, che però si dimostrarono del tutto inutili. Quando entrambi gli eserciti consolari furono sconfitti dagli schiavi di Spartaco presso Modena, si capì la reale gravità della situazione. In realtà gli schiavi volevano solo raggiungere le Alpi ed attraversarle per tornare liberi, ma le vittorie conseguite fecero montare la testa ai fuggischi e questo fu la loro rovina. Decisero infatti di invertire la rotta e dirigersi incontro all'esercito di Roma per affrontarlo a viso aperto. Spartaco giunse fino in Calabria, poi si diresse verso la Puglia, ma qui il suo esercito fu devastato da dieci legioni guidate da Crasso nel 71 a.C.; 60.000 schiavi caddero in battaglia, tra cui lo stesso Spartaco, 6.000 schiavi furono imprigionati e poi crocifissi, mentre i superstiti (circa 5.000) furono trucidati dalle truppe di Pompeo di ritorno dalla Spagna.
Dopo questi avvenimenti Pompeo e Crasso già potenti, decisero anche di unirsi per perseguire una comune politica volta ad acquisire un crescente prestigio. Nel 70 a.C. furono eletti consoli, grazie sopratutto alla minaccia dei loro eserciti accampati poco fuori Roma, e in carica decisero di riconquistare il favore dei democratici e della plebe annullando le riforme di Silla, delle quali tra l'altro erano stati i principali sostenitori. Proprio grazie al riconquistato favore della plebe, Pompeo ricevette nel 67 a.C. il comando di una spedizione punitiva e definitiva contro i pirati, che ormai vagavano liberamente per il Mediterraneo compiendo scorrerie e stragi, con la conseguenza di indebolire l'economia, rendere precari i traffici marittimi e portare alle stelle il prezzo delle merci. Così a Pompeo fu affidato un esercito maestoso di 500 navi, 120.000 fanti e 5.000 cavalieri. In pochi giorni con una tale macchina da guerra Pompeo liberò il Mediterraneo dalla minaccia dei pirati.
Tornato a Roma tra l'entusiasmo generale, Pompeo dovette subito ripartire per risolvere un'altra annosa questione: Mitridate il re del Ponto. Questi aveva ripreso già dal 74 a.C. una campagna contro Roma ed era ormai giunto il momento di intervenire con efficacia. Pompeo in Oriente riportò subito importanti vittorie in scontri campali. Mitridate fu messo alle strette e alla fine, tradito dal suo stesso filglio Farnace nel 63 a.C., si suicidò. Pompeo allargò così i possedimenti orientali di Roma, riorganizzò politicamente tutta l'area e proclamò la Siria nuova provincia Romana. Anche il Ponto e la Bitinia divennero provincie Romane mentre la Palestina mantenne l'indipendenza pur se posta sotto il protettorato Romano.
Intanto però a Roma si consumavano momenti di grande tensione sociale. Lucio Sergio Catilina, un patrizio di una nobile famiglia ormai in rovina, deciso a farsi eleggere console, cercò il favore della plebe, proponendo un programma che prevedeva l'annullamento dei debiti e una nuova riforma agraria. Date le premesse gli aristocratici posero sempre il bastone tra le ruote alla sua elezione, così che che, legalmente o meno, Catilina per ben tre volte si candidò e per ben tre volte non risultò eletto. Catilina decise allora di intervenire con la forza tramando un piano che passerà alla storia come la famosa "congiura di Catilina". Il suo piano prevedeva di organizzare un esercito in Etruria pronto ad entrare in città con le armi, e contemporaneamente far scoppiare a Roma delle sommosse che avevano come scopo principale quello di uccidere Marco Tullio Cicerone il principale avversario politico di Catilina. Cicerone venne però a conoscenza del fatto, informò immediatamente il Senato pronunciando le famose invettive dette "Catilinarie". Il Senato condannò subito a morte (pur senza l'autorità) dei congiuranti scoperti a Roma e inviò contro Catilina un esercito che nel 62 a.C. sconfisse i soldati che aveva organizzato in Etruria. Lo stesso Catilina perse la vita nella battaglia.
Quando Pompeo tornò a Roma i moti insurrezionali di Catilina erano stati appena placati, il colpo di stato era fallito, ma la situazione era ancora di confusione e smarrimento. Pompeo non volle comunque ritornare accompagnato dalla minaccia del suo esercito, e così sciolse le fila dei suoi soldati. Pompeo non fu però ricompensato della battaglia contro i pirati, della guerra contro Mitridate e del suo gesto distensivo, ma anzi i suoi oppositori impedirono di concedere appezzamenti di terra ai suoi soldati in congedo e non riconobbero l'organizzazione politica fatta da Pompeo in Oriente. A questo punto Pompeo capì che aveva bisogno di un sostegno politico forte e nel 60 a.C. stipulò un accordo tacito con Crasso e Gaio Giulio Cesare, formando il cosìdetto primo triumvirato.
In realtà promotore di tutto fu proprio Cesare, appartenente ad una delle più nobile gens Romane ma che politicamente non aveva ancora un rilievo particolare. Chiese quindi a Pompeo di apoggiarlo nella sua candidatura promettendo in cambio l'approvazione dei provvedimenti che il Senato gli aveva in precedenza bocciato. Allo stesso tempo chiese l'appoggio di Crasso, poco interessato per il momento alla politica ma molto alla protezione dei suoi immensi affari. Con l'appoggio di Pompeo e Crasso, Cesare fu eletto console nel 59 a.C. ed appena entrato in carica riconobbe l'organizzazione politica voluta da Pompeo in Oriente, concedendo anche ai suoi veterani in congedo le terre spettanti. Cesare si fece poi assegnare per se il proconsolato della Gallia Cisalpina, della Gallia Narbonese (l'attuale Provenza) e dell'Ilirico.
Cesare inizierà in Gallia una serie di campagne militari che metteranno in luce le sue incredibili doti di generale, la sua intelligenza, la sua creatività, il suo genio militare. Cesare può a buon diritto essere considerato il più grande generale della storia. Attraverso le sue epiche battaglie conquisterà la Gallia, una terra popolata da barbari violenti, irrascibili e mai domi, ma che nonostante tutto riuscirà a sottomettere. Si spingerà fino in Brittania, si scontrerà con popolazioni germaniche, senza mai ottenere una sconfitta. Nel frattempo il triumvirato venne rinnovato da Cesare, Pompeo e Crasso nel 56 a.C. a Lucca. I tre presero le seguenti decisioni: Cesare avrebbe mantenuto il proconsolato nelle Gallie per altri cinque anni, Pompeo e Crasso sarebbeo stati eletti consoli nel 55 a.C., con l'assegnazione al primo del proconsolato in Spagna e al secondo di quello in Siria.
Crasso con questa scelta segnò la sua caduta. Nel 54 a.C. iniziò infatti una campagna militare in Oriente con l'obiettivo di andare alla conquista dell'Impero dei Parti. Questo si estendeva per immensi territori, per la maggior parte desertici, ma comunque strategici per i commerci con l'Oriente, a cui Crasso, bramoso sempre di nuovi guadagni, era molto interessato.
La spedizione fu però un fallimento, Crasso era infatti totalmete inesperto come generale, e cadde in una infinita serie di errori che risulteranno fatali. Tra questi, imperdonabile, fu la sbagliata previsione di spingere i suoi 40.000 uomini all'interno del deserto, che sfiancò completamente l'esercito e diede la possibilità ai Parti di accettare lo scontro campale nel momento in cui i Romani erano ormai allo stremo delle loro forze. Facile prevedere la sconfitta dei Romani, con Crasso obbligato a trattare personalmente la resa e poi ucciso a tradimento nel 53 a.C.
Il triumvirato era così caduto, e con la morte di Crasso i rapporti tra Pompeo e Cesare si andarono deteriorando sempre più velocemente. Pompeo infatti, come tutto il Senato, temevano il crescente potere di Cesare, che continuava a collezionare grandiosi successi che lasciavano senza parole. Così quando a Roma rischiò di scoppiare una gravisima insurrezione popolare, il Senato affidò a Pompeo dei poteri straordinari, nominandolo "consul sine collega" (console senza collega), in quanto il Senato pur non amando né Cesare né Pompeo, riteneva quest'ultimo meno pericoloso. Pompeo ne approfittò per cercare di distruggere politicamente il suo vecchio compagno, e prese la decisione di obbligare Cesare a sciogliere il suo esercito alla scadenza nel 50 a.C del suo mandato in Gallia, per allontanare la minaccia del suo immenso potere raggiunto anche grazie a le sue fedelissime legioni. Pompeo avrebbe conservato invece il suo esercito in Spagna, diventando così maggiormente temibile.
Cesare però non cadde nel tranello, anzi partì all'offensiva con le sue legioni, entrò in Italia, superò l'invalicabile confine del fiume Rubicone, che per legge non poteva essere attraversato dall'esercito (dopo questo gesto pronuncierà la famosa frase "il dado è tratto"), e si diresse direttamente su Roma. Pompeo costretto alla fuga cercherà invano di sfuggire a Cesare, impresa che si dimostrerà impossibile grazie all'incredibile velocità di spostamento che le legioni cesariane avevano acquisito nelle campagne di Gallia. Cesare inizò quindi delle spedizioni per eliminare le varie legioni fedeli a Pompeo: era scoppiata la guerra civile. Cesare battè prima i pompeiani in Spagna nel 49 a.C. e poi in Oriente a Farsalo nel 48 a.C., con Pompeo costretto a fuggire e a rifugiarsi in Egitto dove sarà ucciso dal Re Tolomeo XII che temeva la vendetta di Cesare qualora lo avesse ospitato nel suo regno. Cesare però non ricambierà il generoso gesto di Tolomeo, perchè giunto in Egitto si innamorerà di Cleopatra, sorella giovanissima di questi, e la innalzerà al trono.
Cesare in Oriente ebbe anche il tempo di sedare una rivolta degli egiziani e di sconfiggere in modo imperioso e senza possibilità di replica Farnace, Re del Ponto, figlio di Mitridate, che aveva ripreso la guerra contro Roma seguendo le orme del padre. Farnace fu umiliato in una portentosa e velocissima battaglia combattuta a Zela, che portò Cesare a pronunciare la celebre frase "Veni, Vidi, Vici".
Poi ancora una vittoria a Tapso, in Africa, nel 46 a.C., dove Cesare eliminò dei fedelissimi pompeiani ancora ostili.
Finalemte Cesare potè tornare a Roma dove gli furono tributati quattro trionfi per i successi in Gallia, Egitto, Ponto e Africa, prima di dover tornare sul campo di battaglia a Munda, in Spagna, per eliminare definitivamente nel 45 a.C. gli ultimi pompeiani rimasti.
Cesare già Pontefice Massimo, vale a dire sacerdote supremo della religione Romana, padre della patria, console, tribuno della plebe a vita che lo rendeva di fatto una persona sacra ed inviolabile, viene anche insignito del titolo di Imperator (Comandante assoluto degli eserciti) e di Dittatore Perpetuo.
Cesare poteva sempre indossare a Roma la toga color porpora dei trionfatori, poteva sedere al Senato su un trono d'orato, poteva nominare i magistrati. Furono prodotte monete con la sua effige e innalzate statue in suo onore. Un mese dell'anno prese il nome della sua gens (Iulius=Luglio). Come avveniva nella cultura ellenistica Cesare stava venendo gradualmente assimilato ad una dività da adorare e rispettare.
Cesare allargò la cittadinanza Romana alla Gallia, e promulgò una serie di leggi a favore delle masse e dei veterani di guerra, che se da un lato gli attirarono le immense simpatie del popolo che lo amava, dall'altro gli creò numerosi nemici.
Nel 44 a.C. Cesare rifiutò la corona di Re offerta dal suo luogotenente Marco Antonio, ma nonostante questo, il suo crescente potere aveva ormai reso chiaro che la Repubblica era morta e che Roma stava gradualmente diventando un impero fondato su un regime monarchico. Così mentre Cesare stava preparando una spedizione punitiva in Oriente contro i Parti e i Daci che avrebbe garantito a Roma il controllo totale dei traffici di queste terre, viene ordita contro di lui la famosa congiura che il 15 di Marzo (Idi di Marzo) lo vedrà assasinato da un gruppo di senatori guidati da Marco Giunio Bruto, suo figlio adottivo, e Caio Cassio.
La morte di Cesare nelle intenzioni dei congiuranti doveva riportare all'effettivo potere le istituzioni repubblicane, ma così non fu. Il popolo amava profondamente Cesare e quando venne letto il testamento del generale Romano che lasciava 300 sesterzi a testa per tutta la plebe, l'indignazione del popolo per aver perso un tale uomo crebbe in maniera preoccupante. Bruto e Cassio furono costretti a fuggire da Roma per il pericolo di venire trucidati dalla folla o dai fedelissimi veterani dell'esercito di Cesare.
La situazione politica interna era estremamente delicata e confusionaria; Cesare aveva designato come suo successore Gaio Ottavio, un suo pronipote che aveva adottato e che per questo aveva assunto il nome di Gaio Giulio Cesare Ottaviano, ma allo stesso tempo anche Marco Antonio, figlio di Giulia, sorella di Cesare, sempre fedele sul campo di battaglia allo zio, aveva ambizioni al potere. Tra i due scoppiò subito una rivalità, che portò Ottaviano ancora giovanissimo (aveva diciannove anni) a schierarsi dalla parte dei conservatori, trovando l'appoggio politico in Cicerone.
Quando Antonio intento a vendicare Cesare e ad eliminare tutti coloro che erano coinvolti nella congiura mosse il suo esercito contro Decimo Bruto (non l'uccisore di Cesare che invece si chiamava Marco Giunio Bruto), governatore della Gallia Cisalpina, per intimarlo a deporre la sua carica, il Senato si schierò contro Marco Antonio e così fece anche Ottaviano. I due eserciti si scontrarono a Modena nel 43 a.C. e Marco Antonio fu costretto a ritirarsi pur subendo scarse perdite.
I conservatori con Cicerone in testa pensavano ormai di aver ripreso in mano il controllo della situazione, credendo di aver ormai soggiogato ai loro interessi il giovane ed inesperto Ottaviano, ma la situazione si dimostrò ben diversa. Ottaviano a sorpresa chiese il consolato, e davanti al rifiuto del Senato, marciò su Roma con il suo esercito imponendo con le minaccie la propria elezione. La scalata al potere di Ottaviano era iniziata. Nel 43 a.C. a Bologna firmò un patto di alleanza e collaborazione con Marco Antonio e Emilio Lepido (comandante della cavalleria di Cesare); era nato il Secondo Triumvirato, non tacito e segreto come il primo, ma legalmente riconosciuto dall'impotente Senato che gli dovette concedere il carattere di magistratura straordinaria.
Iniziò a Roma un nuovo periodo di terrore. Cesare fu divinizzato come Divus Iulius, ma iniziarono anche una serie di proscrizioni, ancora più feroci di quelle praticate da Silla, in cui tutti gli oppositori venivano uccisi e i loro beni venduti per finanziare la campagna militare in preparazione contro Bruto e Cassio, uccisori di Cesare, che si erano rifugiati in Oriente dove stavano organizzando un loro personale esercito. Per le proscrizioni persero la vita 130 senatori e 2000 cavalieri, tra cui anche Cicerone, raggiunto a Formia dai sicari di Marco Antonio.
Nel 42 a.C. a Filippi in Macedonia arriva lo scontro decisivo tra l'esercito di Bruto e Cassio e quello di Marco Antonio e Ottaviano. Questi ultimi riescono ad imporsi e sia Bruto che Cassio ormai braccati si suicideranno. I triumviri iniziano così a spartirsi le provincie; a Marco Antonio viene affidata la Gallia Narbonese e Transalpina e tutto l'Oriente, a Ottaviano la Spagna e le grandi isole, mentre a Lepido rimasto in disparte venne affidata solo l'Africa.
Ottaviano e Marco Antonio erano ormai i due uomini chiavi dello scacchiere, e i due per dimostrare la forza del loro patto arrivano a creare persino un incrocio di parentela. Marco Antonio sposa Ottavia, sorella di Ottaviano e concede a questo il governo delle Gallie.
Marco Antonio punta tutto sull'Oriente, dove vuole anche riprendere una campagna militare contro i Parti. Ma Antonio in Egitto si innamora perdutamente di Cleopatra, già madre di Cesarione figlio avuto da Cesare, da cui avrà tre figli.Inoltre Ottaviano nega a Marco Antonio i 20.000 uomini da lui richiesti per tentare l'impresa contro i Parti, così che le sue idee di conquista non si poterono attuare. Anzi Ottaviano ormai padrone dell'Occidente continuava a gettare fango su Antonio, convincendo l'opinione pubblica del suo assoggettamento ai voleri di Cleopatra e ai valori religiosi orintali. Ottaviano fu talmente bravo in quest'opera di convincimento che Roma organizzò una vera e propria spedizione punitiva contro Marco Antonio, una guerra in nome della difesa della Romanità. La battaglia che vide scontrarsi i due ex-triumviri si svolse via mare ad Azio, in Epiro, nel 31 a.C., e vide la vittoria di Ottaviano. Marco Antonio e Cleopatra si ritireranno ad Alesandria, ma nel 30 sono soprafatti ancora una volta dalle truppe di Ottaviano provenienti dalla Siria e dalla Cirenaica. Così senza più speranze Marco Antonio si suiciderà e Clepatra, per non essere trascinata e umiliata nel corteo trionfale di Ottaviano a Roma, seguirà la stessa strada facendosi mordere da un aspide.
Ottaviano, che in precedenza aveva avuto modo attraverso la battaglia di Naucolo nel 36 a.C. di liberarsi di Sesto Pompeo, figlio di Pompeo, che con scorribande da pirata, infestava lungo le direttrici commerciali Italiche ed in particalar modo lungo le grandi isole, aveva anche isolato definitivamente Lepido, a cui era stata tolta anche l'Africa mantenendo solo la carica di Pontefice Massimo. Ora con l'eliminazione di Marco Antonio, Ottaviano rimane l'unico ed incontrastato signore, in grado di controllare tutto l'immenso territorio Romano. Roma non è più una repubblica ma un impero.
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