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Chi Resuscita...
a cura di Alberto Rossignoli
Quando venne estratta dal fiume gelato in cui era caduta mentre sciava con gli amici, Anna Bagenholm, era clinicamente morta da un’ora. I soccorritori dell’ospedale di Tromso, a nord della Norvegia, capirono che la situazione era disperata: la donna aveva smesso di respirare, il polso era senza battito, le pupille dilatate, la temperatura corporea a 13,7 gradi. Ma, invece di riscaldarla con coperte e thermos, gli infermieri decisero di tenere il corpo ghiacciato per il trasporto in elicottero; già, perché lo stesso freddo che avrebbe potuto ucciderla giocava a suo favore, riducendo il bisogno di ossigeno del cervello nel momento in cui il sangue della donna non ne aveva molto a disposizione.
Ma quella volta presero un’altra decisione, mai sperimentata: non somministrare la soluzione salina usata per evitare la disidratazione. Perché? Trattando altri casi di congelamento, i medici avevano capito che i fluidi non facevano altro che aumentare la pressione sui tessuti danneggiati, e avevano quindi deciso di non seguire i protocolli, limitandosi a riportare molto lentamente alla temperatura normale il corpo della donna; e il suo cuore ricominciò miracolosamente a funzionare dopo 3 ore di inattività.
Le cose non furono così automatiche: il sangue di Anna dovette essere ossigenato artificialmente per cinque giorni e lei restò paralizzata per cinque mesi.
Ora Anna fa la dottoressa nello stesso ospedale dove è stata salvata e la sua è solo una delle storie narrate nel saggio Cheating death (“Ingannare la morte: i dottori e i miracoli medici che salvano vite quando tutto sembra disperato”), uscito negli Usa. L’autore, Sanjay Gupta, corrispondente medico della Cnn, dimostra che tornare a vivere dopo la morte è più normale di ciò che sembra.
Infatti, grazie al progresso tecnologico, le probabilità di riportare in vita persone il cui cuore aveva cessato di battere si alzano.
Come aggiunge Lance Becker, del Centro di scienze della rianimazione all’Università della Pennsylvania, non è vero che esiste una netta demarcazione tra vita e morte: molto più spesso di quel che si crede, si combatte in una sorta di “zona grigia”, da cui molti tornano.
Come spiega il dottor Becker, l’arresto cardiaco consta di tre fasi:
elettrica: dura 4 minuti; il cuore continua a pulsare anche se non pompa più sangue a un ritmo costante
circolatoria: dura da 4 a 6 minuti; viene consumato tutto l’ossigeno presente nel sangue e il cuore non può più generare attività ed energia elettrica.
L’assenza di ossigeno costringe poi le cellule a far ricorso ad altre fonti di energia, portando alla fase metabolica e alla morte.
Per ogni minuto senza ossigeno le possibilità di tornare in vita scendono del 10%: se non si viene prontamente soccorsi cala del 2%. Per anni nei pronto soccorso si è insegnato a usare un misto di massaggio cardiaco e respirazione bocca a bocca, ma ora si è capito che nei primi minuti dopo l’infarto il sangue è ancora ricco di ossigeno e che la priorità è distribuirlo comprimendo il torace il più velocemente possibile (200 volte in 2 minuti) per sfruttare la residua presenza di elettricità. La defibrillazione non riattiva il cuore, che non ne necessita poiché nei primi minuti continua a pulsare, ma ne ristabilisce il ritmo perduto.
Le probabilità di sopravvivenza aumentano ancora se dopo la compressione viene usata una sorta di ipotermia terapeutica, simile al procedimento che abbiamo appena descritto.
Ogni grado di raffreddamento porta a un rallentamento del metabolismo cellulare tra il 5% e il 7%, ostacolando i processi chimici che portano alla morte cellulare nella terza fase dell’infarto. A volte, in casi di morte cerebrale, il raffreddamento darebbe il tempo al cervello di autoripararsi.
C’è una dialettica in atto, negli States, tra la Fda (che sostiene sia sbagliato raffreddare gli infartuati) e la American Heart Association che, invece, consiglia l’uso dell’ipotermia, mentre i National Institutes of Health sostengono che non è provata la sua efficacia e comunque non sarebbe lecito ed etico usarla.
Nel frattempo, nei laboratori del Darpa (il centro studi del Pentagono) si studia un farmaco che possa essere inoculato per produrre uno stato di ibernazione istantaneo e temporaneo, il tempo necessario per trasportare i soldati dal fronte ai centri medici. Tra le sostanze testate c’è l’idrogeno solforato, in grado di rallentare le contrazioni muscolari.
Un buon numero di rianimazioni sarebbe stato ottenuto in questo modo.
Toccare la zona grigia….tra vita e morte…
Alcuni narrano delle esperienze vissute proprio al confine tra vita e morte.
I racconti si assomigliano e per la maggior parte dei ricercatori si tratta di allucinazioni determinate dalla mancanza di ossigeno (la riduzione del campo visivo potrebbe portare a immaginare un tunnel) o l’effetto di certe sostanze prodotte naturalmente dal nostro cervello in momenti di marcato stress fisiologico.
Ma Sam Parnia, che insegna al Cornell Medical Center di New York, incuriosito da questi fenomeni, ha deciso di indagare coinvolgendo 25 centri medici nel mondo: per due anni verranno intervistati decine di pazienti che hanno ripreso vita dopo che il loro cuore aveva cessato di battere. Per stabilire se si tratta di vere esperienze extracorporee o di allucinazioni, in alcune sale di emergenza ha fatto appendere immagini visibili solo dal soffitto, dove alcuni pazienti dicono di fluttuare: se fosse così, dovrebbero riportare anche questi particolari.
La tematica delle esperienze di pre-morte è alquanto interessante e, come si è visto, lascia aperti parecchi interrogativi e solleva parecchi dubbi e parecchie perplessità.
Ma si potrà liquidare tutto semplicemente come una mera reazione fisiologica?
Neanche il settore medico è unanime di fronte a queste esperienze.
L’ostacolo più duro da rimuovere, per accettare simili fenomenologie di coscienza oltre-corpo (come possiamo definirla), è il ritenere che il corpo sia tutto e, al di fuori del corpo, nulla possa darsi: stiamo parlando del riduzionismo (mi viene in mente, a titolo di esempio, il riduzionismo in psicologia, quello dei neuro-fisiologi).
L’essere umano, come sembra, è (e rimarrà?) un mistero a se stesso…
Fonti:
Panorama, 10/12/2009; Marco De Martino, I resuscitati
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