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Gli Etruschi: qualche informazione su questo (misterioso) popolo
a cura di Alberto Rossignoli
Nel patrimonio genetico degli italiani vi sono le tracce degli antichi Etruschi, come confermato da studi di genetica condotti dall’Università di Torino.
Con l’aiuto di archeologi, perché non immaginare un viaggio nell’Etruria di 2600 anni fa?
Caliamoci, ad esempio, nei panni di Aule Tulumnes, residente a Cere (l’odierna Cerveteri) nel VI secolo a.C., quando gli Etruschi erano al massimo del loro sviluppo. Primo vantaggio: il benessere.
La società etrusca era aristocratica e si diffuse principalmente nelle campagne. Il concetto di “città” fu importato dalla Grecia.
Aule è un nobile proprietario terriero che vive in campagna. Non ha ovviamente molta tecnologia a sua disposizione ma i suoi schiavi si occupano delle sue quotidiane incombenze, come la pulizia, la contabilità, l’intrattenimento e così via, mentre altri schiavi coltivano i campi, misurano i confini e sistemano le pietre “tutelar”, che delimitano la proprietà privata.
Gli Etruschi erano infatti grandi sostenitori della proprietà: hanno cambiato il vecchio ordine di cose, in cui la terra era un bene comune della tribù. Ora, molte famiglie possiedono centinaia di ettari ben delimitati da queste pietre di confine, che recano incise minacce e maledizioni eterne verso chiunque voglia spostarle.
Aule e i suoi contemporanei, per far rispettare i confini, si affidano anche alla figura tutelare del dio Tagete. La campagna etrusca è una tavolozza di colori: campi ordinati e coltivati con le migliori piante di farro e frumento, alberi da frutto, canali d’irrigazione. Una campagna che incanta anche i viaggiatori greci e attira persone libere, disposte a lavorare come schiavi, ma con uno status simile ai “clientes” romani, in cambio della protezione dei “principes” etruschi. Come riferiscono i cronisti greci, gli schiavi stessi, anche nei campi, sono puliti, vestiti dignitosamente e non trattati poi così male.
Altra forza dell’economia etrusca è il ferro. Si estrae nell’Isola d’Elba. I centri metallurgici di Populonia, Massa Marittima e Arezzo, dove si fabbricano anche armi, hanno fatto dell’Etruria qualcosa di simile all’attuale area strategica del petrolio. Fra le poche cose di cui deve occuparsi un nobile come Aule c’è la guerra.
Guerre contro i Greci, contro i Fenici, i Celti, i Romani, i Siracusani e altri ancora.
Quando la pratica bellica viene sospesa, la giornata di Aule comincia con la caccia, attività prettamente aristocratica; seguono gli allenamenti con un maestro d’armi: importante è l’allenamento col carro da guerra (il nobile etrusco combatte generalmente a bordo di un carro seguito da un drappello di fanti).
Poi c’è la visita alle coltivazioni.
Aule deve decidere se comprare da Larth dei campi di farro, ma deve prima consultare gli aruspici, addetti alla divinazione, dai quali si va per ogni sorta di questione. Gli aruspici etruschi hanno riunito in ponderosi libri le diverse arti di prevedere il futuro, libri che saranno consultati anche in età romana per le decisioni di una certa gravità. Tre erano i metodi che utilizzavano: l’osservazione della posizione dei fulmini del cielo, il volo degli uccelli e l’aspetto del fegato degli animali sacrificati. Il cielo, come il fegato, era diviso in settori, ciascuno corrispondente all’area di pertinenza di una divinità, in grado di influenzare il destino degli uomini.
Oggi Aule ha un impegno importante: un funerale.
La vita media, in Etruria, era di soli 40 anni.
Prima di arrivare alla processione funebre, Aule butta l’occhio su un gruppo di neonati in vendita (figli di prigioniere dell’ultima guerra). Poi si sofferma davanti a una parata: c’è un carro da guerra con a bordo anche un attore che rappresenta il defunto, seguito dalle maschere dei suoi antenati. In processione appaiono la scure e i fasci, simbolo del potere dell’aristocratico morto.
La tomba etrusca riprende in piccolo l’abitazione dei vivi; è destinata ad essere visitata negli anni da amici e parenti del defunto.
La cerimonia finisce con i giochi rituali. Uno di questi, il “phersu”, è terribile: un malfattore, o un semplice prigioniero, viene incappucciato, gli viene legata una mano dietro la schiena e con l’altra deve impugnare una spada per combattere alla cieca contro una belva feroce. Una sorta di sacrificio umano per favorire l’ingresso nell’aldilà del nobile morto. Alcuni studiosi ritengono che il phersu abbia ispirato i giochi gladiatori dei romani.
Gli Etruschi, come ci informa Valerio Massimo Manfredi, nutrivano una vera e propria ammirazione per l’arte greca e lo stile greco, per cui si facevano raffigurare con aria orientaleggiante, originando così l’ipotesi di una possibile provenienza dall’Oriente degli Etruschi, rafforzata dal ritrovamento nell’isola di Lemno, nell’Egeo,di una iscrizione in lingua simile a quella etrusca lasciata da un popolo che pure lavorava i metalli.
Un’altra ipotesi è che gli Etruschi fossero i discendenti di europei che avevano resistito all’invasione dei popoli Kurgan, che diffusero le lingue indoeuropee, alla base di quelle attuali.
L’isola di Lemno sarebbe allora stata per gli Etruschi solo una colonia.
Molte divinità greche sono entrate nel Pantheon etrusco, inizialmente popolato da figure dell’aldilà con tratti animaleschi o mostruosi. Charun, il demone traghettatore dei morti, forse mutuato dai Greci, conserva però tutto l’aspetto di un demone.
Un etrusco come Aule, appena può, passa dal Tempio di Uni (Era), un centro di contatto importante nella realtà rurale, non solo religioso, che sostituisce il foro delle città greche e romane.
Ma la sua giornata finisce sovente in totale relax, nel simposium, un banchetto in casa, fra amici. Per i Greci, il simposium etrusco è scandaloso, poiché vi partecipano anche le donne, distese sui triclini sotto i mantelli degli uomini, come scrive il cronista greco dell’epoca Teopompo.
Ateneo aggiunge che erano grandi bevitrici di vino e, sempre Teopompo, rivela che, nel simposium, si arrivava anche allo scambio di coppia.
Ad ogni modo, una cosa sembra certa: le donne etrusche, a differenza di quelle greche, sono libere e hanno importanti diritti, come quello di mantenere il nome di famiglia (hanno infatti un doppio cognome) e di poter ereditare (partecipando così alla concentrazione delle terre e dei mezzi di produzione.
Sono state ritrovate anche resti umani di donne col carro o l’ascia del potere.
Per quanto concerne la fine della civiltà etrusca, si ritiene che gli Etruschi abbiano commesso un errore. Infatti, mentre i Romani seppero rinnovarsi a livello sociale, creando la figura del console popolare, dando progressivamente diritti e libertà agli schiavi, gli Etruschi non fecero concessioni alle classi subalterne. Chiusi nelle loro tradizioni, fecero dell’arroganza del potere la loro rovina. Le classi subalterne e gli schiavi, infine, si ribellarono, dando un aiuto non da poco ai Romani, che conquistarono e assimilarono l’Etruria.
Era il 265 a.C. quando cadde Volsinii, l’attuale Bolena, ultima città etrusca.
Fonti:
Focus, 06/2001; Franco Capone, Un giorno da Etruschi
Roccalitìa
È una collina posta a nord-est del massiccio cimino, al di sopra della località la Fornacchia, lungo la strada Viterbo-Soriano nel Cimino.
Molti sono gli archeologi e i ricercatori locali che ne parlano, ma uno studio non è ancora stato fatto. La particolarità di Roccaltìa è nei resti imponenti di mura ciclopiche che testimoniano, assieme a tutto un convergere di strade, selciate o no, l’antica vitalità del centro.
Ai piedi della collina si stende tutta una necropoli con tombe a fossa etrusche e romane.
Salendo verso il pianoro si incontra una prima linea di mura molte volte definite pelagiche. Alcuni massi sono ancora in situ, altri rotolati per il declivio, giacciono confusi tra la fitta vegetazione. Sono enormi blocchi di c.a. m1x1,30, posti l’uno sopra l’altro a difendere l’accesso al colle. La seconda cinta, di cui restano più ampi tratti - uno è lungo oltre 13 metri – si incontra presso la cima dove arivati, si nota subito, come essa sia stata modificata dalla mano dell’uomo. È spianata completamente, formando all’incirca una radura rettangolare (m.30x15) con miseri avanzi di una postazione difensiva medievale.
Fino a che studi particolari e ricerche specifiche sul posto non diano un carattere preciso a questa località, rimane ancora valida – a solo scopo di studio – l’ipotesi avanzata da L.R. Danielli e da altri archeologi: che qui fosse il tempio a Giove Cimino. L’ipotesi prende le mosse dal ritrovamento di un’ara romana avvenuto in Orvieto. Si tratta di un cippo di travertino quadrato che, nella parte anteriore, riporta la seguente epigrafe in lingua latina: Aram / constituit / Iovi Cimi / nio A. Scil / leius / Pris / cus C.S.C… E’ stato agevole mettere in relazione questa scoperta con la spianata e la posizione di Roccaltìa.
Tutta la zona comunque abbonda di resti archeologici: sono tombe a grotta e a fossa scavate nella roccia come presso il fosso di Tinta; pestarole, tombe a fossa e sarcofagi antropomorfi (Sterpaio del Signore), resti di solchi di antiche strade come alla Fornacchia; resti di mura megalitiche a nord di Peretro e in località Spinacceto; tombe a cappuccina come a S. Lucia.
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