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A proposito di “anima”: una cronistoria
a cura di Alberto Rossignoli
Alla voce “anima”, il Dizionario Italiano della lingua italiana, Devoto-Oli, recita:
«Principio immateriale della vita dell’uomo, contrapposta al corpo e ritenuta tradizionalmente immortale».
Ma come ha avuto origine questa concezione?
E come è cambiato nel tempo il concetto di “anima”?
L’anima ha tre radici già nel mondo preistorico: lo sciamanesimo, la credenza nel mondo onirico e quella nella vita ultraterrena. Nelle pitture rupestri di 20 mila anni fa, gli antichi sciamani avevano raffigurato i loro viaggi nel mondo degli spiriti. In stato di trance, pensavano di abbandonare il corpo con la loro anima, disegnata sotto forma di volatile. Da queste pratiche si è poi sviluppato l’animismo, ossia l’idea che gli esseri viventi ( e le cose) abbiano una sostanza spirituale.
Altrettanto fondamentale, per l’origine dell’anima, la credenza in una vita dopo la morte, testimoniata dalle prime sepolture preistoriche nelle quali, assieme al corpo, erano posti dei corredi, utili per la vita nell’Aldilà. Questa convinzione era diffusa anche fra gli agricoltori del Neolitico che, 10 mila anni fa, osservando il ciclo di morte e rinascita stagionale dei vegetali (pianta-seme-pianta), lo estendevano anche all’uomo.
Non per nulla si facevano seppellire in posizione fetale…
Il concetto di immortalità raggiunse il suo compimento nell’antico Egitto. Inizialmente considerata un privilegio di faraoni e nobili, poi estesa anche al popolo, la vita dell’oltretomba era una certezza, tanto da venir descritta, con precise istruzioni, in un apposito “Libro dei morti”. I defunti potevano accedere all’Aldilà solo dopo aver dichiarato la non colpevolezza rispetto a precetti etici validi anche oggi, come non rubare, non uccidere, non negare il sostentamento a un povero e così via.
Il dio Anubis verificava queste affermazioni mettendo l’anima su una bilancia: se pesava più di una piuma, a causa di una vita dissoluta, il defunto andava incontro all’eterna morte. Se invece era più leggera, si poteva accedere alla vita eterna.
Per la precisione, riguardo all’anima, gli antichi Egizi credevano nell’esistenza di cinque componenti spirituali:
il ba, l’ego più profondo della persona;
il ka, l’energia vitale;
l’akh, lo spirito più intimo;
la propria ombra;
il nome della persona (la sua cancellazione dalle iscrizioni dei templi era considerato un vero attentato alla persona nell’Aldilà)
Gli ebrei, dal canto loro, per lungo tempo non cedettero nell’immortalità dell’anima: al massimo a presenze evanescenti e vegetative che vagavano sulla Terra.
Vero è che Jahvè fece salire in cielo alcuni profeti, ma quello degli ebrei era un dio che entrava nella storia, migliorando questa vita invece di promettere una ricompensa in cielo. Solo poi, soprattutto all’epoca dell’esilio babilonese, si affermo fra gli ebrei l’idea dell’immortalità dell’anima e del paradiso come premio per i giusti.
Nell’antica Grecia, le anime dei defunti erano tristi, sfuggenti, vagavano come le nottole. A volte apparivano in sembianze umane, come le vide Ulisse in una sorta di cerchio magico. Figure pallide e sfuggenti erano quelle dei suoi compagni e di sua madre defunti: poco restava degli uomini, essendo l’immortalità riservata agli dei.
Così i seguaci di Orfeo (musico e poeta, figlio di Apollo) elaborarono una dottrina alternativa, secondo cui mediante l’arte e la virtù anche l’uomo poteva raggiungere l’immortalità.
Anzi, lo spirito pre-esisteva alla nascita: doveva scontare una colpa originale vivendo limitato in un corpo mortale; con la conoscenza, le virtù e l’estasi, si poteva uscire dalla prigione della materia e tornare al divino.
Ma dopo un po’ si tornava sulla Terra, per riprendere la lotta spirituale.
Gli orfici diedero vita alla contrapposizione corpo-anima che in Platone e Plotino troverà i massimi sostenitori.
Anche nelle tradizioni orientali si parla di “anima”.
Ed è l’atman, donde la parola italiana “atmosfera” e il termine tedesco atmen, ossia “respirare”.
L’atman sarebbe costituito da una particella di energia, origine della coscienza, diversa dal copro in cui e con cui è intrecciata. Per gli induisti l’atman proviene dal brahman, l’anima divina che pervade il cosmo e permette di scoprire la divinità dentro di sé. L’anima è imprigionata nel samsara, il ciclo delle rinascite, alimentato dalla voglia di vivere di ogni individuo.
Per il Buddhismo, nato 600 anni prima di Cristo,o meglio, secondo la vulgata interpretativa del Buddhismo (le cose sono un po’ più complesse, in realtà), il samsara diventò una catena da infrangere. Le continue reincarnazioni erano anche fonte di desideri e di sofferenze.
Perciò il Buddhismo propose di far raggiungere all’anima la purezza immobile del nirvana, stato di annullamento in cui non si vivono emozioni né positive né negative.
Ancora oggi l’obiettivo buddhista è l’estinzione dell’atman, io-anima.
Le reincarnazione, o metempsicosi, non è però, nelle religioni orientali, un moto senza regole: c’èla legge del karma, secondi cui ogni volta si rinasce a un livello superiore o inferiore a seconda di come ci si è comportati nella vita precedente.
Come ripeto, le cose, riguardo al Buddhismo sono un po’ più complesse, dal momento che vi sono innumerevoli diramazioni di pensiero.
Ad ogni modo, la credenza nella reincarnazione è stata la più diffusa dell’antichità: ci credevano gli orfici, i platonici, alcune comunità cristiano-neoplatoniche (come gli gnostici), gruppi ebraici e i sufi musulmani.
Anche S.Agostino, uno dei padri della Chiesa, sposò nel IV secolo l’idea della prevalenza dell’anima sul corpo.
S.Tommaso d’Aquino, nel Medioevo, definirà invece in ben altro modo la linea della Chiesa, ribadendo l’assoluta unità di anima e corpo.
Le idee platoniche saranno proibite da vari concili ecumenici, rispettosi della tradizione biblica, che non concepiva anime separate dal corpo.
Secondo la Chiesa, le anime sono di volta in volta create da Dio con la nascita (non sarebbero dunque pre-esistenti) e si passa nell’Aldilà con il proprio corpo risorto.
L’anima trascorrerebbe il periodo tra la morte della persona e il Giudizio universale riuscendo a contemplare Dio in attesa di riunirsi al corpo. Un periodo che, per i teologi cristiani dei giorni nostri, non va misurato in tempi storici, ma al di fuori dello spazio-tempo: occorre in pratica un solo istante di un’altra dimensione perché l’anima di un defunto si congiunga al suo nuovo corpo ricreato.
Fonti:
Focus, 01/2005; a cura di Franco Capone, Il soffio della vita.
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